Covid, il problema dei tamponi rapidi che non intercettano le varianti del gene N.
I test antigenici rapidi per cercare Sars-CoV-2 potrebbero non essere in grado di intercettare le varianti con alcune mutazioni del gene N (nucleoproteina), quello che la maggior parte dei test rapidi vanno a «cercare» per poter fare la diagnosi. Il problema non si pone per le varianti più diffuse, l’inglese e la brasiliana, che mutano nella proteina Spike (S) coinvolta nell’ingresso del virus nelle cellule dell’ospite e bersaglio principale dei vaccini, ma che mantengono il gene N inalterato. Lo segnala uno studio pubblicato da ricercatori del Dipartimento di Medicina Molecolare di Padova da poco pubblicato sulla piattaforma «medRxiv». Il problema è più che altro diagnostico. I test rapidi hanno un solo bersaglio e spesso è la proteina N. Se circolano varianti mutate nel gene N (innocue e irrilevanti dal punto di vista della diffusione e della patogenicità) il test non potrà rilevare il coronavirus.
Lo studio
I ricercatori, guidati dal professor Andrea Crisanti, hanno analizzato 1.441 tamponi eseguiti all’ ospedale di Padova tra il 15 settembre e il 16 ottobre 2020, il 44% del totale di quel mese. «Il test antigenico ha mancato di identificare correttamente la presenza di Sars-Cov-2 in 19 dei 61 campioni che mostrano un chiaro segnale positivo tampone molecolare». Alcuni infetti sono sfuggiti all’ antigenico «nonostante un’ elevata carica virale». L’analisi di sequenziamento dei virus che mostravano risultati discordanti nei test molecolari e ai test antigenici ha rivelato la presenza di molteplici mutazioni distruttive nella struttura della proteina N (la proteina virale utilizzata come detto per rilevare la presenza del virus nei test antigenici) «raggruppate dalla posizione 229 alla 374, una regione nota per contenere le regioni chiave che permettono l’identificazione del virus in questi test». Secondo i ricercatori lo studio dimostra come le varianti genetiche del gene N possano compromettere la capacità di utilizzare i test antigenici sia per la diagnosi che per i test di massa volti a controllare la trasmissione del virus. «I dati sono ancora limitati ma sicuramente vanno studiati – commenta Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione Microbiologi clinici italiani – senza dimenticare che la diagnosi di elezione è il test molecolare e ci sono linee guida molto precise su l’utilizzo dei test rapidi. In molti contesti l’antigenico non basta e va seguito dal molecolare. Ad ogni modo ogni problematica o anomalia che emerge con i test diagnostici è segnalata con alert che arrivano in ogni ospedale».
La diffusione delle varianti
«Ulteriori prove di laboratorio hanno inoltre dimostrato che questa problematica è comune a test antigenici sviluppati da diversi produttori – commenta il professor Crisanti -. Le sequenze di virus con queste mutazioni sono molto più frequenti nei campioni negativi ai test antigenici ma con PCR positiva e sono progressivamente aumentate di frequenza nel tempo in Veneto, una regione italiana che ha aumentato notevolmente l’utilizzo dei test antigenici raggiungendo quasi il 68% di tutti i test del tampone per Sars -Cov-2. Si ipotizza, quindi, che l’utilizzo di massa dei test antigenici rapidi possa involontariamente favorire la diffusione di varianti virali non rilevabili da parte di questi test contribuendo, così, alla loro libera circolazione e all’inefficacia del loro contenimento».
Problema già segnalato
Alla luce dell’insorgere di nuove varianti il problema delle mutazioni del gene N, bersaglio degli antigenici, era già stato segnalato a metà febbraio da una circolare del ministero della Salute. «Occorre specificare che le nuove varianti, dalla cosiddetta variante UK alla variante brasiliana, che presentano diverse mutazioni nella proteina spike (S), non dovrebbero in teoria causare problemi ai test antigenici, in quanto questi rilevano la proteina N. È da tenere però presente che anche per la proteina N stanno emergendo mutazioni che devono essere attentamente monitorate per valutare la possibile influenza sui test antigenici».
E i materiali?
Sequenziare Sars-CoV-2 è dunque utile anche per motivi diagnostici. Se i test non intercettano più il virus è chiaro che vanno aggiornati con nuovi loci non mutati da rilevare. Il problema è emerso con i tamponi rapidi, ma soprattutto i molecolari sono da tenere d’occhio. L’analisi del tampone molecolare va infatti a cercare tre diversi geni-target nell’Rna del virus denominati S, N e Orf (a differenza del rapido che ne cerca solo uno, in genere N). Quando tutti i tre siti sono presenti siamo di fronte a una variante riconosciuta in pieno dal nostro sistema diagnostico. «Con un S negativo al 90% si tratta di variante inglese, ma serve sequenziare il genoma per ulteriore conferma» puntualizza Nicola D’Alterio,direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise(IZSAM). «Abbiamo però trovato di recente 20 pazienti N negativi tutti in provincia di Chieti: sono stati infettati con una “figlia” della variante spagnola (dominante in Europa in autunno) caratterizzata da una mutazione nuova nel gene N». Questo cambiamento potrebbe mettere in crisi la diagnosi con tampone molecolare dal momento che N è uno dei tre siti cercati. È come se il virus si togliesse il nastro per i «capelli»(N) e poi anche le «scarpe» (S). Il tampone molecolare che va a cercare quelle caratteristiche nel virus non le trova più. Ma che cosa succederebbe se il virus si liberasse anche degli «occhiali»(Orf)? Con tre target negativi il risultato sarebbe un tampone negativo anche se il virus è ancora presente, solo che è diverso. «Non siamo a questo punto — precisa il direttore — ma questi cambiamenti vanno tenuti d’occhio con l’indagine genomica, che ci racconta dove sta mutando il virus, così da poter eventualmente ridisegnare il test molecolare».
Fonte: QuotidianoSanità.it