Il nome è sempre lo stesso: Land Grabbing, ovvero l’accaparramento delle terre fertili. Ma il significato che gli viene dato, e le conseguenze che vengono evidenziate, variano a seconda dei punti di vista. È quasi un “furto” di terre coltivabili, in nome del profitto o dell’accaparramento di cibo, accusa chi vuole enfatizzare l’effetto che questo tipo di compravendita produce sulle popolazioni che vivono e lavorano da generazioni su queste terre e ne vengono espropriate.
È uno dei tanti, e forse più evidenti, effetti del cambiamento climatico, precisa chi punta il dito contro i Paesi ricchi ma aridi, dediti ad acquistare terre agricole per poi spremerle ed esportare vegetali e frutta nei propri mercati.
È l’ultimo colpo inferto alla biodiversità, che si riduce inesorabilmente e facilita la strada alla diffusione di nuovi virus, lancia l’allarme chi è più attento non solo alla sopravvivenze di flora e fauna, ma anche alla cronaca di questi mesi. È, infine, l’impoverimento graduale ed inesorabile dei terreni provocato da queste gigantesche mono-culture, che agevolano e accelerano il cammino verso le desertificazioni.
Una crescita del 1000% in 10 anni
Il Land grabbing non è solo questo, ma è anche questo. Ed è soprattutto un fenomeno che richiede l’attenzione della comunità internazionale. Prima che sia troppo tardi. Ward Anseeuw conosce bene il fenomeno. Economista e analista politico, ricercatore presso l’Agricultural Research Centre for International Development (CIRAD), presta la sua opera come specialista senior presso l’International Land Coalition (Ilc) .«Dal 2000, da quando monitoriamo il fenomeno – ci spiega – sono stati oggetto di compravendita 33 milioni di ettari di terre fertili. Con una netta accelerazione tra il 2009 ed il 2011. Ora il fenomeno sta rallentando. Per diverse ragioni. Sono state sopravvalutate le possibilità di profitti, e sottovalutate le difficoltà di realizzazione. Ma occorre una netta inversione di tendenza se vogliamo avvicinarci ad un ambiente sostenibile».
Giusto un confronto; 33 milioni di ettari sono in pratica una superficie più grande di tutta l’Italia. La corsa all’acquisto ha accelerato nel 2007, quando la crisi dei prezzi dei prodotti agricoli ha posto in modo drammatico l’accento sul problema della sicurezza alimentare nei Paesi ricchi, mettendo in luce le grandi opportunità economiche ancora presenti nei Paesi in via di sviluppo.
Gli investimenti agricoli decollarono. Trascinandosi dietro, e non è una novità, fondi e speculatori. In soli dieci anni, dal 2008, l’anno dello scoppio della crisi finanziaria, al 2017, il fenomeno del Land grabbing è cresciuto del 1000 per cento. Terreni usati per coltivare, e poi esportare cibo, per i biodiesel, o come nuovo strumento per macinare profitti. Ma anche per progetti di estrazione mineraria, progetti industriali e turistici, urbanizzazione. A farne le spese, spesso, è il manto forestale. E le biodiversità.
Monoculture: biodiversità a rischio e climate change
Assistere alla metamorfosi dei terreni oggetto di grab landing a volte lascia una sensazione di inquietudine. Volando sopra l’Africa occidentale, dall’alto appare un panorama di terreni che si susseguono l’uno dietro all’altro. A perdita d’occhio. Sempre uguali. Sempre ordinati. Sempre dello stesso colore, con la stessa coltivazione.
«Il Land grabbing – prosegue Ward Anseeuw – comporta l’acquisizione di grande terreni agricoli che sono spesso convertiti in monocolture. Questo ha un impatto negativo su diversi fronti: le monoculture impoveriscono i terreni, e quindi accelerano il loro inaridimento. E richiedono una grande meccanizzazione, per cui un basso apporto di forza lavoro. Senza contare che non di rado vengono realizzate ai danni del manto forestale».
D’altronde, segnala una recente ricerca dell’International Land Coalition (Ilc) , la meccanizzazione è arrivata a tal punto che nel mondo l’1% delle fattorie coltiva il 70% dei terreni agricoli. E qui avviene un altro fenomeno tristemente noto come quelle dell’urbanizzazione forzata. Una volta persa la terra, molte persone sono costrette a riversarsi nelle enormi baraccopoli ai margini delle metropoli. Eppure la popolazione rurale è in aumento. Quindi una gestione sostenibile della terra è una condizione indispensabile per evitare il peggio.
Già oggi nel mondo 2,5 miliardi di persone sarebbero coinvolte in qualche modo con la coltivazione di piccole superfici. In altre parole con un’agricoltura di sussistenza.
Contratti poco trasparenti e ispirati al profitto rapido
«Non c’è trasparenza nei contratti di acquisizione. Abbiamo scoperto che in meno del 10% dei contratti vengono coinvolte le comunità che vivono sulle terre oggetto di transazione», continua Ward AnseeuwI .
Paradosso dei paradossi, dei 36 milioni di ettari di terre agricole acquistate in tutto il mondo dagli investitori, tra i 15 e i 16 milioni di ettari non sono ancora stati utilizzati.
«In questo modo la gente perde la terra, ma dai progetti conseguenti ai contratti sulle terre agricoli non deriva alcun beneficio», puntualizza Anseeuw. Al primo paradosso si lega un secondo paradosso. Il World Food Programme (Wfp) stima che quasi un miliardo di persone oggi non ha abbastanza cibo come richiesto da una dieta salutare.
Infine un terzo. A seconda del tipo di produzione, il tasso di impiego delle agricolture mono-intensive e altamente meccanizzate e industrializzate può variare anche da 25 a 100 volte di meno (per i cereali, ad esempio) rispetto ai modelli agricoli familiari. Così in molti Paesi caratterizzati da redditi bassi, dove l’agricoltura è il settore di impiego prioritario, ed esistono pochissime alternative, le conseguenze di questo processo sul fronte sociale ed economico sono potenzialmente disastrose.
Ma come fermare la fame di terre fertili, per esempio, dei Governi arabi, tra i maggiori interessati all’acquisto soprattutto nella vicina Africa, in modo da assicurarsi gli approvvigionamenti alimentari? Il caso degli Emirati Arabi Uniti è emblematico. Questo ricco Paese ha dato il via ad una grande progetto di coltivazione di vegetali nel deserto. Ma importa ancora il 90% degli alimenti di cui si nutre la sua popolazione.
Le relazioni pericolose : Covid e de-forestazione.
Infine un altro preoccupante aspetto. Le grandi deforestazioni provocate dalle monocolture, e la conseguente perdita della biodiversità, contribuiscono ad una maggior diffusione di virus come il Covid-19. Insomma. Come sottolinea l’Ilc, la terra è un bene finito. Non può essere prodotto, né riprodotta. Il suo utilizzo esercita conseguenze diretta sulle popolazioni e sull’ambiente. La terra non è una materia prima come le altre.
«Il Land grabbing – conclude il dottor Ward – risponde ad una logica che va in direzione contraria a quella della sostenibilità. Ma la sostenibilità appare l’unico approccio ragionevole percorribile sul lungo termine» .
Fonte: 24 Italia de IlSole24Ore