Green sì, green washing no. I ragazzi italiani cercano la (vera) sostenibilità
Articolo del 10 Maggio 2021
Nei Fridays for future, gli scioperi per il clima lanciati dall’attivista svedese Greta Thunberg, c’è uno slogan che ricorreva fra i cartelloni e gli smartphone dei milioni di giovani in piazza: the climate is changing, why aren’t we? Il clima sta cambiando, perché non lo facciamo anche noi? La domanda era rivolta soprattutto alle vecchie generazioni, quelle accusate di aver trascinato il pianeta sul baratro della crisi climatica. Perché i giovani e i giovanissimi sono già cambiati da un pezzo, a partire da uno degli ambiti che li tocca in prima persona: gli acquisti.
Le nuove generazioni, italiane e internazionali, mostrano una sensibilità sempre più acuta per tutto quello che ruota intorno a sostenibilità, adeguando le proprie abitudini di consumo a criteri ecologici. Con un occhio critico soprattutto sulle aziende e lo scarto fra l’evoluzione green sbandierata ovunque e l’aderenza effettiva a modelli di produzione sostenibile: il vecchio green washing, l’ambientalismo di facciata che trasforma la sostenibilità in una questione di marketing (a fronte di comportamenti del tutto disallineati ai criteri di sostenibilità).
La spinta green dei giovanissimi…
Già i cosiddetti millennials, i nati fra gli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90, hanno tracciato la via. Un’indagine dell’Istituto Toniolo, un centro di ricerca dell’Università Cattolica, evidenziava già nel 2019 come oltre l’80% degli intervistati si dicesse pronto a «cambiare le proprie abitudini» per arginare il surriscaldamento globale, con una quota del 70% incline a scegliere i prodotti di aziende che si mostrano davvero impegnate nella salvaguardia dell’ambiente.
Il cambio di passo anche più radicale è arrivato con la cosiddetta Generation Z, quella dei nati fra il 1996 e il 2010. Una ricerca curata dall’istituto di Management della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa per Centromarca ha evidenziato che proprio i giovanissimi si rivelano più consapevoli dell’emergenza climatica, visto che «quasi il 70% dei minori di 18 anni ha affermato che il cambiamento climatico è un’emergenza globale, rispetto al 65% quelli di età compresa tra 18 e 35 anni, il 66% di età compresa tra 36 e 59 anni e il 58% di età superiore a 60 anni».
Un’ulteriore quota del 55,1% di 18-24enni ritiene che i danni all’ambiente siano un «problema serio», sopra al 50% circa degli over 24.
Non è sempre stato così. Fabio Iraldo, professore alla Scuola Sant’Anna e all’Università Bocconi di Milano, spiega che fino a un decennio fa si assisteva al paradosso di giovani e anziani accomunati da una certa insensibilità alle questioni ambientali. «Non è che i giovani fossero meno preparati, ma erano più influenzati da altre variabili come moda, brand, pressione dei pari – dice Iraldo – In 10 anni si è stravolto tutto e oggi è il contrario: questa fascia è fra le più disposte a mettersi in gioco».
Il nuovo corso, dice Iraldo, nasce da un incrocio di fattori: maggiore formazione scolastica ed extrascolastica sulle questioni ambientali, cambio dei modelli di riferimento («Oggi l’impegno ambientale è diventato distintivo») e, ovviamente, una familiarità con il web che spalanca un’offerta di informazione vastissima. La causa ambientale è sposata nella politica, con maggiori aspettative dalle istituzioni, ma anche nella quotidianità.
Per esempio con la propensione all’acquisto di prodotti sostenibili, anche a un prezzo maggiore rispetto alla concorrenza. Un’indagine di Ernst&Young, una società di consulenza, ha rilevato che il 50% degli intervistati millennial o generation Z è disposto a pagare il 10% e oltre in più per un prodotto realizzato in maniera sostenibile.
Per le generazioni precedenti si oscilla fra il 34% e il 23% del campione totale. Le imprese, ovviamente, si sono accorte da tempo del fenomeno e cercano di rincorrerlo. È così che il verde compare ovunque, dalle bottiglie di soft drink all’abbigliamento, dai prodotti per la casa a, ovviamente, la conversione ecologica dell’industria dell’automotive. «L’offerta di prodotti green sostenibili è esplosa. Ma non è necessariamente un bene» fa notare Iraldo.
In effetti la sovrabbondanza di prodotti green, o presunti tali, ha alimentato anche le bufale e reso più complicato distinguere le aziende veramente sostenibili da quelle che finiscono, magari in buona fede, per proporre solo forme più sottili di green washing. Il risultato è che proprio i consumatori della Generation Z divengono, a volte, clienti di prodotti con impatti ambientali tutt’altro che misurati.
Da un lato i giovanissimi, a quanto emerge dalla ricerca Sant’Anna, tendono in quasi 4 casi su 10 a informarsi «spesso o molto spesso» sui prodotti che acquistano e in oltre il 33% dei casi scansionano il Qr code presente sui prodotti (sopra ai 24 anni si scende a poco meno del 19%).
Dall’altro la quota di under 24 che compra prodotti «a basso impatto» sia inferiore di sette punti percentuali rispetto a quella del resto della popolazione (circa il 77% contro l’85%), viaggiando su percentuali più basse anche nell’acquisto da aziende che offrano luoghi di lavoro sicuri e sani ai dipendenti.
A risultarne è una contraddizione che può essere colmata, dice Iraldo, con una consapevolezza maggiore e meno «manichea» rispetto all’impatto ambientale. Tanto più necessaria su un mercato dove i confini fra green e green washing tendono a sfumarsi anche agli occhi degli addetti ai lavori. Oggi quasi nessuna azienda avrebbe il coraggio di definirsi ostile o disinteressata all’ambiente.
Il problema, non solo per gli under 24, è avere gli strumenti per capire chi lo sia davvero. «Una volta la concorrenza si faceva tra chi diceva di essere green e non lo era oggi la concorrenza è fra i vari green e chi fa green washing – dice Iraldo – Il rischio per le generazioni di essere esposti a bufale è altissimo. Le aziende per parlare di green dovrebbero avere le spalle larghe e i giovani non sono sempre capaci di distinguere grande sensibilità e predisposizione».
Il peso della formazione
Lo strumento per difendersi dal green washing non può che essere la formazione. Ma quale? «Serve una migliore conoscenza scientifica per evitare uno scarto tra quello che si dice e il livello reale di sostenibilità dei prodotti» Matteo Colleoni, ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio e delegato alla sostenibilità dell’Università Bicocca, citando due fra i settori dove si concentrano più luoghi comuni: trasporti e materiali.
«Per fare un esempio, si dice che per rendere più sostenibili i trasporti bisogna superare i motori a combustione – dice – È vero, ma quante volte si dice che bisogna lavorare anche sui materiali per rendere i mezzi più leggeri? O ancora, quante volte sentiamo che bisogna “eliminare tutte le plastiche”?».
La buona notizia è che sta crescendo proprio la domanda di istruzione e formazione ad hoc, soprattutto a livello universitario. Con un legame diretto fra teoria e partecipazione diretta: «C’è un cambiamento fortissimo, forse il cambiamento più importante degli ultimi 10 anni – dice Colleoni – Viene esplicitato in una richiesta crescente degli studenti di fare parte della governance della sostenibilità accademica delegazione».
Ma l’aspetto più interessante, nota Colleoni, è che «si manifesta una relazione diretta fra il tema ambientale e la responsabilità individuale. E la stanno esplicitando in settori come raccolta differenziata, acquisto e consumi prodotti sostenibili e mobilità. Con risultati che vediamo effettivamente».
Fonte: IlSole24Ore