Il “Rinascimento psichedelico” indica la riaccensione dell’interesse verso le proprietà psicoterapeutiche di una classe di farmaci che negli anni ’50 e ’60 furono oggetto di numerosi studi clinici, in vista di un uso terapeutico, ma che subirono un’improvvisa battuta d’arresto nei primi anni ’70, quando fu proibito sia l’uso ricreazionale sia quello terapeutico di queste sostanze. Un aspetto alla base della nuova stagione di questi studi è il rigore metodologico, basato su studi clinici randomizzati e controllati in doppio cieco nei quali si sono cimentati alcuni tra i migliori gruppi di psicofarmacologia clinica: qui ripercorriamo quelli riguardanti la psilocibina, focalizzati in particolare sui disturbi d’interesse psichiatrico.

Inserendo il termine psychedelic come parola chiave di ricerca nel sito ClinicalTrials.gov, il database di studi clinici mantenuto dai National Institutes of Health statunitensi, si ottengono 315 trial clinici che utilizzano farmaci appartenenti a diverse categorie farmacologiche: allucinogeni (psilocibina, LSD, mescalina, dimetiltriptamina); analoghi o derivati sintetici del tetraidrocannabinolo (il principio attivo della Cannabis, nella forma di dronabinol o marinol), derivati anfetaminici (MDMA, ecstasy), derivati della Salvia divinorum e dell’ibogaina. Si tratta chiaramente di una categoria molto eterogenea di farmaci, utilizzati per altrettanto diverse condizioni cliniche. Per esempio, mentre la psilocibina e i suoi analoghi hanno proprietà allucinogene, questa caratteristica non è applicabile ai principi attivi della Cannabis né all’MDMA.

Per questo motivo useremo qui il termine psichedelici in senso restrittivo, specificamente riferito alla psilocibina e ai farmaci della sua classe, come l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico), la mescalina, la DMT (dimetiltriptammina), che hanno in comune la proprietà di agire come potenti agonisti di un sottotipo di recettori della serotonina chiamato 5HT2A. La serotonina è un neurotrasmettitore/neuromodulatore, sintetizzato e liberato da specifici neuroni che innervano con le loro terminazioni praticamente tutto il sistema nervoso centrale e controllano importanti funzioni, dal comportamento alimentare a quello sessuale, dalla regolazione del ritmo sonno-veglia a quello del tono dell’umore.

Tra questi farmaci, la psilocibina, originariamente estratta da alcuni funghi allucinogeni (del genere PsilocybePanaeolusInocybe, e Stropharia), è facilmente sintetizzabile e anche per questo attualmente di gran lunga la più utilizzata negli studi clinici.

Inserendo psilocybin come parola chiave, il sito ClinicalTrials.gov registra 66 studi nei quali il farmaco viene sperimentato come trattamento aggiuntivo alla psicoterapia nella depressione maggiore, depressione resistente ai comuni antidepressivi, disturbo ossessivo compulsivo, dipendenza da alcol e altre dipendenze da sostanze, anoressia nervosa, depressione e ansia (psychological distress) in pazienti affetti da gravi malattie a rischio di vita (tumori, AIDS, malattie neurodegenerative).

Questa abbondanza di studi clinici è l’espressione più tangibile della Psychedelic Renaissance, la riaccensione in grande stile dell’interesse verso le proprietà psicoterapeutiche di una classe di farmaci che negli anni Cinquanta e Sessanta furono oggetto di numerosi studi clinici, in vista di un uso terapeutico. Tuttavia, questi studi subirono un’improvvisa battuta d’arresto nei primi anni Settanta, ai tempi della “war on drugs”, quando queste sostanze furono inserite dall’agenzia federale antidroga degli Stati Uniti, la Drug Enforcement Administration (DEA), nella cosiddetta “Schedule I”, proibendone non solo l’uso ricreazionale ma anche l’uso terapeutico.

Naturalmente ci si chiede quali siano i motivi di questo ritorno al passato e in quali termini stia avvenendo. Sicuramente un motivo è da ricercare in una sorta di crisi di identità, sia della psicofarmacologia che della psicoterapia, sull’effettiva efficacia di queste modalità terapeutiche in certi disturbi, come la depressione maggiore, il disturbo ossessivo compulsivo, la dipendenza da alcol, l’anoressia o in stati psicologici secondari a condizioni mediche. In effetti, se consideriamo la psicofarmacologia, i meccanismi d’azione principali, cioè le proprietà farmacodinamiche delle maggiori classi di psicofarmaci, sono rimaste le stesse dagli anni Cinquanta a oggi. Sono state affinate le caratteristiche farmacocinetiche, cioè l’assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione degli psicofarmaci, ed è stata aumentata la specificità nei confronti di recettori specifici (come antidepressivi, inibitori della ricaptazione della serotonina) o in certi casi è stato aumentato il range dei sottotipi di recettori interessati dal farmaco (per esempio antipsicotici, clozapina), agendo tuttavia su meccanismi neurotrasmettitoriali noti da più di mezzo secolo. Il risultato di questo make-up è servito ad aumentare l’indice terapeutico, cioè il rapporto tra la dose che produce effetti avversi e la dose terapeutica, e quindi a ridurre gli effetti collaterali alle dosi terapeutiche, ma non ad aumentare l’efficacia assoluta.

Un aspetto alla base della nuova stagione di questi studi è il rigore metodologico, basato su studi clinici randomizzati e controllati in doppio cieco nei quali si sono cimentati alcuni tra i migliori gruppi di psicofarmacologia clinica: Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross che dirige lo Psychedelic Research Group alla New York University, Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California. Questo tuttavia, non mette necessariamente al riparo da problemi metodologici. Infatti, farmaci come la psilocibina e gli allucinogeni in generale hanno effetti talmente distintivi rispetto al placebo che non solo il paziente ma lo stesso valutatore potrebbero imparare a distinguere il farmaco dal placebo. Tanto più che certi studi hanno arruolato soggetti che avevano esperienza dei farmaci, avendone fatto un uso ricreazionale. Si è tentato di aggirare questo problema utilizzando placebo attivi come la stessa psilocibina, anche a basse dosi, o la niacina.

Psilocibina e depressione

I primi studi sull’effetto della psilocibina su sindromi depressive sono stati effettuati in pazienti affetti da condizioni mediche gravi e a rischio di vita. Segnaliamo, in particolare, quattro studi che hanno valutato l’efficacia della psicoterapia assistita da psilocibina in dosi singole (massimo due) a distanza di almeno una settimana, in pazienti affetti da tumore in stadio avanzato e con disagio psicologico ed esistenziale. Il primo è stato condotto da Charles Grop dell’Harbor-UCLA Medical Center in California ed è terminato nel 2011. I secondi due si sono conclusi nel 2016 e sono stati condotti da Ronald Griffiths della Johns Hopkins University e da Stephen Ross della New York University, che è anche autore dell’ultimo studio conclusosi nel 2021. I risultati di questi studi indicano che singole dosi, da moderate ad alte, di psilocibina, somministrate in concomitanza con la psicoterapia, producono effetti rapidi, pronunciati e prolungati (da mesi ad anni) dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché riduzioni prolungate del disagio esistenziale e miglioramento della qualità della vita.

Per quanto riguarda l’effetto della psilocibina associata alla psicoterapia per la cura della depressione maggiore, fino a un anno fa erano disponibili solo i risultati, seppure incoraggianti, di studi non in cieco, ovvero in cui i partecipanti sanno se hanno ricevuto il farmaco o il placebo. Recentemente sono stati pubblicati i risultati di due trial clinici randomizzati e controllati di fase 2. Nel trial condotto da Alan K Davis e Roland Griffiths, l’effetto della psilocibina è stato paragonato a quello del placebo, mentre nello studio di Robin Carhart-Harris la psilocibina è stata paragonata a un antidepressivo tradizionale, l’escitalopram, un inibitore della ricaptazione della serotonina. Anche in questi studi la psilocibina è stata somministrata in due occasioni a distanza da una a tre settimane e gli effetti sono stati valutati varie settimane dopo. La psilocibina ha mostrato un pronunciato effetto antidepressivo rispetto al placebo, con remissione dei sintomi depressivi nel 54% dei soggetti a quattro settimane dal farmaco. Paragonata all’escitalopram, la psilocibina, a distanza di sei settimane dalla seconda dose, ha mostrato un effetto antidepressivo sovrapponibile a quello dell’escitalopram, somministrato giornalmente per sei mesi.

Questo paragone enfatizza la peculiarità dell’effetto della psilocibina rispetto a quello dell’escitalopram. Infatti, un aspetto distintivo dell’azione terapeutica dei farmaci psichedelici rispetto agli psicofarmaci tradizionali è il fatto che il loro effetto non dipende dal mantenimento di costanti livelli del farmaco nel cervello ma dall’induzione di modificazioni a lungo termine in seguito alla somministrazione una tantum o ripetuta ma discontinua del farmaco.

Meccanismi d’azione

Per quanto peculiari, le caratteristiche dell’effetto terapeutico della psilocibina hanno vari precedenti nella farmacologia dei farmaci ad azione centrale. Singole dosi di morfina e in generale dei narcotici analgesici o degli psicostimolanti, sono in grado di produrre, soprattutto negli animali da esperimento, modificazioni durature (per esempio sensibilizzazione) e in certi casi irreversibili, degli effetti comportamentali degli stessi farmaci e di quelli appartenenti alla stessa classe farmacologica. Questi fenomeni neuroplastici o neuroadattativi sono tipici del sistema nervoso centrale, dove sono essenziali per funzioni proprie di questo sistema, come l’apprendimento e la memoria e sono ipotizzati giocare un ruolo importante nelle dipendenze da sostanze e nello stesso meccanismo d’azione dei farmaci antidepressivi tradizionali.

Attualmente, gli antidepressivi più utilizzati, come l’escitalopram, potenziano la trasmissione serotoninergica nel sistema nervoso centrale, aumentando la quota di serotonina sui suoi recettori. Sono quindi stimolanti indiretti della trasmissione serotoninergica. La psilocibina e i suoi analoghi sono invece agonisti diretti di una sottopopolazione di recettori della serotonina, chiamata 5HT2A. Quindi, certi antidepressivi e la psilocibina condividono, assieme all’azione antidepressiva, la proprietà di stimolare un particolare tipo di recettori serotoninergici. Ovviamente qualcuno si chiederà come mai gli antidepressivi, anche a dosi elevate, non producono effetti allucinogeni. I motivi possono essere vari: esistono svariati sottotipi di recettori della serotonina che hanno effetti opposti e che quindi possono cancellarsi a vicenda se stimolati contemporaneamente, come nel caso degli antidepressivi. Tuttavia, dopo trattamento prolungato con antidepressivi, i recettori del gruppo della serotonina di segno opposto ai recettori 5HT2A potrebbero andare incontro a una riduzione dell’efficienza nel trasdurre il messaggio della serotonina (down-regulation). Perciò, il trattamento cronico con antidepressivi avrebbe l’effetto di eliminare progressivamente l’influenza di altri sottotipi recettoriali serotoninergici ad azione opposta a quella dei recettori 5HT2A, aumentando così l’azione della serotonina sui recettori 5HT2A. Un agonista diretto, selettivo e ad alta affinità come la psilocibina potrebbe essere quindi il magic bullet capace di superare tutti gli ostacoli incontrati dagli antidepressivi. Queste considerazioni sono alla base dell’ipotesi che l’effetto antidepressivo della psilocibina sia il risultato di un effetto neuroplastico, non diverso, quanto al risultato, da quello indotto dagli antidepressivi tradizionali. Questa ipotesi, per quanto plausibile, non rende però conto del fatto che, anche in soggetti sotto trattamento da lungo tempo con antidepressivi serotoninergici, non si osserva alcun effetto allucinogeno o psichedelico.

Yaden e Griffits pensano a un meccanismo radicalmente differente. L’effetto antidepressivo della psilocibina sarebbe dovuto ai suoi effetti subiettivi e in particolare all’esperienza “mistica’’. A supporto di questa ipotesi gli autori osservano che l’efficacia della psilocibina come antidepressivo non è correlata all’intensità dei suoi effetti psicofisiologici (per esempio sulla percezione visiva o uditiva) ma alla completezza, rilevata con una scala di valutazione (Mystical Experience Questionnaire), dell’esperienza mistica. Secondo questa ipotesi, l’effetto antidepressivo della psilocibina è solo un aspetto di un cambiamento più profondo e radicale causato dall’esperienza psichedelica, un “punto di svolta’’ (deflection point) nel modo in cui il soggetto valuta sé stesso e il mondo intorno a sé. In effetti, molto spesso i soggetti trattati con psilocibina considerano la loro esperienza come una delle più significative della loro vita.

Verso gli studi di fase 3

Gli effetti antidepressivi della psilocibina associata alla psicoterapia potrebbero essere il primo esempio di un nuovo modo di trattare alcuni disturbi di interesse psichiatrico. La peculiarità dell’azione della psilocibina è costituita dall’efficacia una tantum e dalla durata di settimane e mesi. Per il momento non esistono studi controllati su altre condizioni, come il disturbo ossessivo compulsivo, la dipendenza dall’alcol o l’anoressia, ma studi su queste condizioni saranno presto conclusi. Per quanto i risultati siano molto promettenti, gli studi finora disponibili sono di fase 2 e quindi riguardano un numero limitato di pazienti. Bisognerà attendere studi di fase 3, effettuati su un ampio numero di pazienti distribuiti su molti centri perché si possa pensare di autorizzare l’uso terapeutico della psilocibina. Intanto però, negli Stati Uniti sono nati come funghi una serie di ambulatori privati nei quali la psilocibina e i suoi analoghi vengono somministrati nell’ambito di pretesi studi clinici, nei quali i volontari arruolati per lo studio, invece di essere retribuiti, sono in realtà pazienti paganti.

 

 

Fonte: Scienza in Rete

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