Quello che sappiamo sul legame tra Covid e genetica
Articolo del 21 Luglio 2021
Vaccinare, vaccinare, vaccinare. Ma non solo: per vincere la battaglia contro Covid-19 bisogna puntare anche sulle terapie e sulla comprensione dei fattori che determinano il decorso della malattia nelle persone che si infettano. In questi mesi la comunità scientifica ha osservato grandi differenze nella gravità dei sintomi e nell’esito dell’infezione, legate per esempio all’età, al sesso e allo stato di salute generale dei pazienti. Ma non solo.
Sembra sempre più probabile che anche la genetica giochi un ruolo fondamentale nel determinare il decorso di Covid-19. Un lavoro appena pubblicato su Nature, risultato dell’analisi condotta dagli esperti della Covid-19 Host Genetics Initiative sul genoma di oltre 100mila persone positive all’infezione, ha mostrato che esistono almeno una decina di varianti genetiche con “forti associazioni statistiche con la probabilità individuale di sviluppare Covid-19 e di soffrire i sintomi più gravi della malattia”. Un’evidenza la cui chiarezza ha sorpreso gli stessi esperti: “Ci sono poche varianti genetiche comuni che possono fare davvero la differenza”, ha commentato, per esempio, Guillaume Butler-Laporte, esperto di malattie infettive e di epidemiologia genetica della McGill University di Montreal, in Canada: “E non penso nessuno si aspettasse di osservarle così chiaramente”.
I precedenti studi
Già diversi mesi fa, dopo più di un anno dall’inizio della prima ondata, uno studio italiano pubblicato su iScience aveva fatto notare come la gravità di Covid-19 fosse legata a cinque mutazioni genetiche. Gli autori del lavoro, i ricercatori del Ceinge – Biotecnologie avanzate di Napoli, avevano passato in rassegna i dati provenienti da circa un milione e mezzo di persone residenti in diversi paesi europei, resi disponibili dalla già citata Covid-19 Host Genetics Initiative, che coinvolge 143 centri di ricerca internazionali: attraverso approfondite analisi genetiche, condotte tramite tecniche computazionali sviluppate ad hoc, gli scienziati avevano individuato cinque mutazioni sul cromosoma 21 in grado di alterare la funzione di due geni, Tmprss2 e MX1, rendendo chi ne era portatore più esposto ai sintomi più aggressivi dell’infezione.
Ma torniamo ai risultati dello studio appena pubblicato, che è il più estensivo finora condotto, non in termini di numero di pazienti coinvolti, ma di profondità dell’analisi, dal momento che si tratta della fusione di 46 diversi lavori. Gli autori raccontano che “le associazioni genetiche riscontrate aumentano il rischio, in generale, di una percentuale relativamente bassa, anche se taluni aumenti sono paragonabili a quelli dovuti ad altri fattori di rischio acclarati, tra cui obesità e diabete”. In ogni caso, gli esperti rimarcano che anche se l’aumento del rischio non fosse così significativo, lo studio delle varianti genetiche correlate alla gravità di Covid-19 è comunque importante, dal momento che aiuta a far luce sui meccanismi biologici alla base della malattia e, di conseguenza, indica la strada per possibili terapie.
Le strategie contro Covid-19
Una delle varianti identificate ha a che fare con una famiglia nota di geni antivirali, la cosiddetta Oas (oligoadenylate synthase): si tratta di geni che attivano enzimi che si legano all’rna del virus, e sembra che una variante che porta a un minor livello dell’enzima Oas1 nel polmone aumenti il rischio di infezione, ospedalizzazione e sintomi gravi. La maggior parte dei coronavirus “risponde” a questo meccanismo di protezione usando un’altra famiglia di proteine, le fosfodiesterasi (Pde), ma Sars-CoV-2 non sembra capace di farlo. Per questo motivo sono allo studio farmaci che possano aumentare i livelli di Oas1, sfruttando questa specie di “tallone d’Achille” del virus.
Un’altra variante si trova in prossimità di un gene che codifica per una porzione di un recettore cellulare per gli interferoni, molecole già note per la loro azione di stimolazione della risposta immunitaria ai virus. Proprio in virtù di questo effetto, un tipo di interferone era già stato testato come possibile trattamento anti Covid-19 già prima della conferma della correlazione genetica, ma i trial non hanno dato risultati positivi. Sempre in chiave terapeutica sono allo studio anche altre associazioni genetiche, tra cui per esempio una proteina codificata da un gene, TYK2, che sembra essere correlata a sintomi gravi della malattia e su cui potrebbe agire il baricitinib, un farmaco attualmente usato per il trattamento dell’artrite reumatoide.
Uno degli obiettivi di questa linea di ricerca è quello di capire se e come le correlazioni tra varianti genetiche e gravità della malattia possano aiutare a prevedere il decorso individuale dell’infezione. Magari, come avviene per altre patologie, con la stesura di un punteggio di rischio che tenga presente sia delle associazioni genetiche che dell’eventuale presenza di comorbidità come diabete di tipo 2, tumori, obesità e malattie cardiovascolari. Ma c’è anche un altro aspetto, in qualche modo complementare, ed è quello che riguarda le mutazioni rare.
Secondo alcuni esperti, tra cui per esempio Jean-Laurent Casanova, genetista alla Rockefeller University a capo del Covid Human Genetic Effort, un altro consorzio che indaga il legame tra genetica e Covid-19, la ricerca di varianti comuni che aumentano relativamente poco il rischio è meno importante, dal punto di vista clinico, rispetto alla ricerca di varianti più rare che possono portare in terapia intensiva pazienti giovani e sani. L’équipe di Casanova, per esempio, ha individuato una mutazione rara che coinvolge un gene, Ifnar2, responsabile della codifica di una subunità di un recettore per un interferone, e che, assieme ad altre, potrebbe essere legata allo sviluppo di polmonite grave. Ma in questo momento i condizionali sono ancora molti.
Fonte: Galileo