Il glutine non è altro che una proteina legante gli amidi di alcuni cereali.
Il glutine fa male ad alcuni individui che non ne tollerano l’assunzione, perché provoca loro un danno grave all’epitelio intestinale deputato all’assimilazione dei nutrienti. Tale specificità viene chiamata celiachia (da Kelyos, greco, che significa grosso modo “intestinale”) e produce nel tempo un grave danneggiamento dei villi intestinali, così che l’individuo vede ridotta la propria capacità di assimilare nutrienti fino anche al 70-80%. La diagnosi infatti si sospetta quando si vedono bambini o ragazzi che, nonostante mangino apparentemente senza restrizioni, si presentano deperiti, pallidi (anemici) o col ventre gonfio (effetto del calo di albumina nel sangue). In tal caso si richiedono tre esami specifici (anticorpi anti gliadina, anti endomisio, antitransglutaminasi, quest’ultima la più importante, abbinata alle IgA totali) la positività anche di uno solo depone a favore del sospetto di celiachia. La diagnosi vera e propria si avrà poi solo con una gastroscopia che evidenzi il danno sui villi.
Solo in questo caso il glutine va completamente e attentamente evitato.
Le persone non celiache possono però soffrirne l’eccesso semplicemente perché nella nostra storia evolutiva non ne abbiamo mai consumato così tanto come oggi.
Negli anni gli immunologi più evoluti si sono resi conto del fatto che, anche su soggetti negativi ai test per la celiachia, vi erano risposte patologiche all’assunzione di glutine, che andavano dalla dermatite alla colite, dalla dissenteria alla psoriasi. L’interruzione o la forte riduzione nell’assunzione di glutine dava un forte miglioramento dei sintomi.
Qualcuno già trent’anni fa la definì “intolleranza al glutine” (diversa dalla celiachia) tra i frizzi e i lazzi degli allergologi e dei gastroenterologi ospedalieri che ne negavano l’esistenza. Da qualche anno però, dopo lo “sdoganamento” nel 2004 delle “sensitivities” o “infiammazioni da cibo”, anche i gastroenterologi hanno iniziato a parlare di “gluten sensitivity”: diversa dalla celiachia (test negativi) ma responsiva all’interruzione dell’assunzione di glutine con forti miglioramenti sintomatologici.
Al di là delle mode o delle convinzioni oggi l’esistenza della gluten sensitivity è ben documentata da diversi lavori. Uno molto semplice e chiaro (Biesiekierski JR et al. “Gluten causes gastrointestinal symptoms in subjects without celiac disease: a double blind randomized placebo-controlled trial” Am J Gastroenterol 2011; 106(3): 508-14) documenta l’esistenza di sintomi gastrointestinali assumendo glutine, anche in pazienti non celiaci.
In questo caso è la dose che fa il veleno.
Un ragazzo di oggi infatti assume frumento a colazione con i biscotti, a scuola con la focaccia, a pranzo con la pasta, a merenda con il panino e a cena con la minestra di farro o col pane. Davvero troppo, per chiunque.
Abituarci a un minor uso di frumento, ormai presente ovunque, eliminandolo ad esempio un paio di giorni a settimana, non solo non farà male a nessuno, ma aiuterà noi tutti a restare lontani dalla gluten sensitivity.
Se invece che del frumento avessimo abusato per millenni, per dire, di miglio, con tutta probabilità oggi patiremmo una sensibilità verso la proteina collante del miglio, visto che le “sensitivities” sono sempre figlie dell’abuso, dell’eccesso.