Gli interferoni sono molecole ad azione infiammatoria fondamentali per la nostra sopravvivenza. Se non vengono prodotte a sufficienza quando ce n’è bisogno, il sistema immunitario non riesce a difenderci con successo contro patogeni e tumori; nel COVID-19 la produzione di interferoni (soprattutto di quelli di tipo I e di tipo III) è diminuita o ritardata nei soggetti più gravemente colpiti e nei quali si osserva una abnorme risposta infiammatoria.
Fin dall’inizio della pandemia è apparso subito chiaro che l’infezione da SARS-CoV-2 si presentava con manifestazioni cliniche diverse e molto eterogenee. Tra i positivi al virus, soggetti asintomatici, pazienti affetti da forme lieve, pazienti che hanno necessitato di ricovero ospedaliero e soggetti con forme cliniche gravissime tali da richiedere il ricovero in terapia intensiva.
Certamente il carico virale e la variante infettante hanno rivestito e rivestono ancora oggi un ruolo importante nell’espressione clinica della malattia. La variante alfa (B.1.1.7) è risultata ad esempio, associata a un aumento di circa 2 volte del rischio di ricovero in unità di terapia intensiva e di 1,7 volte al rischio di morte rispetto ad altre varianti in Inghilterra. I pazienti infettati con la variante delta (B.1.617.2) hanno un rischio più del doppio di ricovero ospedaliero rispetto agli individui che hanno contratto la variante alfa (B1.1.7).
Tuttavia, le caratteristiche del virus non sono sufficienti a spiegare l’enorme eterogeneità clinica osservata nelle popolazioni umane infettate da SARS-CoV-2. L’impatto delle varianti è importante, ma appare piuttosto modesto, esattamente come le differenze di genere, l’appartenenza etnica, lo stato economico-sociale e la presenza di condizioni di co-morbilità, con un fattore di rischio (OR) inferiore a 2. È chiaro quindi che la diversità è da ricercare nella variabilità genomica individuale che determina o influenza fortemente la risposta ad un agente patogeno.
È noto da tempo che soggetti con una immunodeficienza genetica, sono particolarmente inclini a sviluppare una patologia grave in seguito ad una infezione virale (ad es. da HIV). Questi soggetti sono portatori di errori congeniti dell’immunità (IEI) che li rendono estremamente suscettibili a particolari virus, batteri, funghi e parassiti vari. Ad esempio, mutazioni del gene TYK2 sono stati scoperte in circa l’1% dei casi di tubercolosi nelle popolazioni europee.
Proprio in base a questa idea, dallo scorso anno abbiamo deciso di costituire il Consorzio “COVID Human Genetic Effort” (CHGE, www.covidhge.com) coordinato dalla Rockfeller University di New York, con l’obiettivo di scoprire se il genoma dell’ospite e in particolare se mutazioni dei geni responsabili della risposta innata alla base degli errori dell’immunità, sono in grado di influenzare le diverse manifestazioni cliniche dei pazienti COVID-19.
I geni dell’interferone e COVID-19
Gli interferoni sono molecole ad azione infiammatoria fondamentali per la nostra sopravvivenza.
Se non vengono prodotte a sufficienza quando ce n’è bisogno, il sistema immunitario non riesce a difenderci con successo contro patogeni e tumori; nel COVID-19 la produzione di interferoni (soprattutto di quelli di tipo I e di tipo III) è diminuita o ritardata nei soggetti più gravemente colpiti e nei quali si osserva una abnorme risposta infiammatoria.
La produzione degli interferoni è regolata da un complesso sistema di controllo con sensori, recettori, interruttori, amplificatori, inibitori, a formare un vero e proprio circuito, pensato per evitare che queste molecole infiammatorie vengano rilasciate nei tessuti quando non è strettamente necessario. In un primo studio abbiamo identificato mutazioni in alcuni di questi geni (TLR3, IRF7, IFNAR1, IFNAR2) del circuito dell’interferone in 23 pazienti, di età compresa tra 17 e 77 anni, con COVID-19 grave (3,5% di 659 pazienti).
Sedici dei 23 pazienti avevano meno di 60 anni. In tutti questi pazienti abbiamo trovato bassi livelli di interferone o difficoltà a produrlo. Curiosamente nessuno di questi pazienti era stato ricoverato in ospedale in precedenza per altre infezioni virali, inclusa l’influenza. Successivamente, abbiamo scoperto che un altro gene del circuito, il gene TLR7, mappato sul cromosoma X, è mutato in circa l’1,4% pazienti maschi con polmonite da COVID-19. Questo ha permesso anche di dimostrare in parte perché gli uomini hanno un rischio di sviluppare COVID-19 fatale circa 1,5 volte superiore a quello delle donne. Nessuna di queste mutazioni è stata mai riscontrata nei soggetti asintomatici.
In base a queste importanti evidenze abbiamo approfondito lo studio dell’interferone nei pazienti COVID-19 e scoperto la presenza di auto-anticorpi anti-interferone in circa il 13% dei pazienti gravi anche senza mutazioni dei geni del circuito! Quindi esistono almeno un 15% dei pazienti COVID-19 grave che hanno un problema nel circuito dell’interferone: a) non lo producono; b) alcuni lo producono, ma poi lo distruggono.
Gli anticorpi anti-interferone, sono stati rilevati per la prima volta negli anni ’80, in pazienti trattati con IFN di tipo I e pazienti con lupus eritematoso sistemico (LES), timoma e miastenia grave e in qualche paziente con grave infezione da virus della varicella zoster (VZV). È interessante osservare che auto-anticorpi anti- IFN vengono quindi stimolati da SARS-CoV-2 in alcuni pazienti probabilmente per una loro intrinseca pre-esistenza dovuta a difetti genetici o altro. Abbiamo trovato una percentuale maggiore di pazienti con polmonite COVID-19 critica e auto-Abs neutralizzanti, in particolare tra gli anziani e coloro che sono morti per COVID-19. A livello globale, oltre il 20% dei pazienti di età superiore agli 80 anni. La produzione quindi degli auto-anticorpi, aumenta con l’età e potrebbe spiegare in parte il perché c’è un eccesso di casi gravi e di decessi in questa popolazione.
Più recentemente, è stato scoperto il ruolo di un altro gene del circuito dell’interferone, il gene OAS1, un attivatore dell’enzima RNaseL indotto dall’interferone, che ha proprietà antivirali importanti in quanto elimina l’RNA dei virus. Questo gene, negli umani produce due tipi di attivatori: la forma p46 e la forma p42 geneticamente regolati. La forma p46 “prenilata” (aggiunta di un residuo lipidico nella parte terminale) è protettiva rispetto al COVID-19 e richiede quantità più basse di interferone per attivarsi al contrario della forma p42 non “prenilata” che richiede 100 volte più interferone per attivarsi. La forma p46 sembra essere quindi più presente nei soggetti che sviluppano un COVID-19 meno grave. Curiosamente, i pipistrelli hanno solo la forma p42 e questo ha permesso loro di tollerare i coronavirus e quindi costituire il serbatoio naturale di questa famiglia di virus.
Questi studi dimostrano che gli errori congeniti dell’immunità dovuti ad alterazioni del circuito dell’interferone sono la causa di polmonite critica da COVID-19 in almeno il 20% dei pazienti in quanto gli individui con bassi livelli di IFN di tipo I nell’epitelio respiratorio non sono in grado di prevenire la diffusione del virus ai polmoni, al sangue e ad altri organi durante i primi giorni di infezione.
Inoltre, hanno importanti implicazioni cliniche, perché: (i) è semplice fare uno screening per identificare i soggetti più a rischio per la presenza di auto-Abs neutralizzanti prima dell’infezione a livello di popolazione; (ii) questi soggetti, dovrebbero essere vaccinati precocemente e inseriti in liste di priorità per le dosi di richiamo; (iii) i pazienti COVID-19 con mutazioni nei geni dell’interferone potrebbero essere avviati a trattamenti specifici e personalizzati con interferone o sottoposti a plasmaferesi per eliminare gli auto-anticorpi anti interferoni.
Tutto ciò dimostra, ancora una volta, quale ruolo fondamentale rivesta la ricerca accademica per comprendere e chiarire i meccanismi biologici delle malattie. In un modello ideale e vincente, i risultati degli studi devono essere presi in grande considerazione, affinché le amministrazioni, le industrie e la società in generale possa poi tradurre il progresso scientifico in provvedimenti e protocolli, trasferendo le conquiste dal laboratorio al letto del malato.
Fonte: Quotidiano Sanità