Cervello umano: le ultime rivelazioni della scienza
Articolo del 18 Ottobre 2021
Il cervello è l’organo più complesso del nostro corpo e per questo sul suo funzionamento restano ancora molte domande aperte. Ecco le risposte degli studi più recenti.
Dà ai muscoli l’impulso per attivarsi, coordina gli organi, ed è la sede di pensieri, emozioni e ricordi. In meno di un chilo e mezzo di materia hanno origine le nostre facoltà più sofisticate, come il linguaggio, la socialità e la capacità di reagire in modo appropriato a ciò che ci accade intorno. Il cervello, insomma, è la nostra centrale di controllo e fa di noi ciò che siamo. Se non ci fosse, saremmo manichini senza vita. Tanto che, per definizione, la morte coincide con la cessazione di tutte le sue funzioni.
CONTINUA EVOLUZIONE. Plasmato da milioni di anni di evoluzione, il cervello ha raggiunto una complessità senza pari. Basti pensare che quello umano ospita 86 miliardi di cellule nervose suddivise in 10.000 tipi diversi, ciascuna delle quali comunica con migliaia di altri neuroni. Queste connessioni formano circuiti capaci di processare in un decimo di secondo stimoli estremamente complessi, attingendo a una mole di informazioni che è almeno 50.000 volte superiore a quella conservata nella British Library, la più grande biblioteca del mondo. Le straordinarie capacità della nostra mente scaturiscono da un’attività incessante, fatta di impulsi elettrici e segnali chimici, alla quale destiniamo il 20% dell’energia che introduciamo con gli alimenti.
COME È FATTO IL NOSTRO CERVELLO. In estrema sintesi, l’encefalo (termine più corretto rispetto a cervello) riceve le informazioni dagli organi di senso, le integra con quelle che già possiede, e decide che cosa fare. Per assolvere a questo compito si avvale di una struttura a blocchi, che svolgono prevalentemente certe funzioni, ma che comunicano costantemente fra loro come gli strumenti di un’orchestra, capaci di suonare le melodie più diverse. Per esempio, semplificando un po’, il cervelletto, situato posteriormente, interviene nella coordinazione dei movimenti ma svolge anche altri ruoli. Mentre l’ipotalamo regola numerose attività involontarie, come il sonno e la veglia, la fame e la sete. Il sistema limbico è la sede delle emozioni più istintive, e l’ippocampo è il magazzino dei ricordi. Il talamo, infine, riceve gran parte degli stimoli provenienti dagli organi di senso e li invia alla corteccia, la parte più complessa ed evoluta dell’encefalo, che li elabora e li interpreta, pianificando una risposta coerente.
Nella corteccia i circuiti sono organizzati in colonne e ciascun neurone stabilisce connessioni con quelli che stanno sopra e sotto. Ogni colonna è influenzata da ciò che accade in quelle vicine e questo permette al cervello di rispondere in modo fine e flessibile. «Un tempo si riteneva che ciascuna area corticale avesse un compito preciso, ma oggi sappiamo che tutte lavorano in modo integrato, e che ci sono molte sovrapposizioni», spiega Raffaella Rumiati, professoressa di neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. «Per esempio, la corteccia premotoria sinistra presenta zone chiave per il linguaggio, ma anche per la programmazione dei movimenti. L’individuazione delle funzioni svolte dalle varie zone si è avvalsa di tecniche di neuroimaging, che identificano le aree che si attivano mentre si esegue un compito. Oggi questi studi sono integrati da tecnologie estremamente sofisticate, che permettono di tracciare le connessioni fra le varie parti della corteccia e fra queste e il resto dell’encefalo. Queste informazioni, un po’ alla volta, ci stanno dando un’idea più realistica di come lavora il cervello umano.»
COME DECIDIAMO E CAPIAMO IL MONDO. Le facoltà della mente che più affascinano sono quelle che ci rendono coscienti. La corteccia cerebrale, e in particolare l’area prefrontale, è la sede delle funzioni esecutive, che ci portano a prendere decisioni e a pianificare il futuro. Questi processi tengono conto di ciò che sta accadendo attorno a noi (che viene percepito tramite gli organi di senso), delle emozioni (che possono modificare le risposte e addirittura diventarne il motore prevalente) e delle conoscenze stipate nei serbatoi della memoria. Quest’ultima, in particolare, ci consente di mettere a frutto le nostre esperienze, ma anche di capire situazioni nuove. Nell’interpretazione della realtà, infatti, il cervello si affida costantemente alla memoria. E, in particolare, alla memoria dichiarativa semantica, che ha per oggetto fatti e concetti generali. Questo è il motivo per cui quando incontriamo un animale peloso che miagola sappiamo che è un gatto: la nostra memoria semantica ha infatti in sé il concetto di “gatto”, dedotto dalle esperienze passate. Tutta l’interpretazione del mondo si basa su questo tipo di processi.
LA MATEMATICA FA BENE. Nella nostra specie, le aree responsabili delle funzioni esecutive maturano con estrema lentezza: l’infanzia e l’adolescenza di Homo sapiens durano tantissimo rispetto a quelle di altre specie. E se da un lato questo ci espone a rischi durante la prima parte della vita, dall’altro ci dona una finestra temporale prolungata per imparare. Una caratteristica del cervello – che non scompare crescendo, ma è molto più marcata durante l’infanzia – è infatti proprio quella di modificarsi in base all’esperienza, potenziando le reti che sono utilizzate di più. Per esempio, nelle persone cieche le zone della corteccia normalmente dedicate alla visione sono colonizzate dal senso del tatto. Mentre uno studio condotto alla fine degli anni Novanta (prima dell’avvento dei navigatori satellitari) ha dimostrato che nei tassisti di Londra le aree cerebrali che conservano la memoria dei luoghi e degli spazi erano molto più sviluppate.
L’importanza della scuola, invece, è chiara nei risultati di una ricerca condotta recentemente nel Regno Unito, Paese in cui gli studenti possono decidere di smettere di studiare matematica a 16 anni. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno analizzato l’effetto di questa scelta sul cervello, scoprendo che, a un anno e mezzo dalla decisione, chi aveva abbandonato i numeri aveva un’attività ridotta del giro frontale, area chiave per il ragionamento razionale e il problem solving. Il difetto non era presente nei ragazzi prima che terminassero lo studio della matematica e, secondo i ricercatori, potrebbe avere qualche conseguenza sulle loro capacità di ragionamento in futuro.
NOI E GLI ALTRI ANIMALI. Peraltro, la matematica non è un’esclusiva del cervello umano. «Il senso del numero, che consente di fare le operazioni aritmetiche (sommare, sottrarre e calcolare rapporti), è presente in tutte le specie in cui è stato cercato: nei pesci, nei pulcini, nelle rane e persino nelle api», spiega Giorgio Vallortigara, professore di neuroscienze all’Università di Trento. Così come non sono esclusive di Homo sapiens le altre facoltà di cui si è detto fin qui. «I cervelli dei vari animali hanno specializzazioni diverse: per esempio, quello dei pipistrelli consente loro di percepire il mondo attraverso gli ultrasuoni, mentre quello dei pesci elettrici permette una comunicazione basata su scariche elettriche», prosegue lo scienziato. «La nostra specializzazione, quella che ci differenzia dalle altre specie, è il linguaggio verbale, per il quale abbiamo architetture nervose dedicate, e che consente la trasmissione culturale delle informazioni. Ma in fondo non c’è nulla di speciale nell’avere una specializzazione».
IL DONO DELLA PAROLA. Più di tutto, insomma, a renderci umani è il linguaggio, alla cui produzione e comprensione sono dedicate ampie zone di corteccia, che si estendono dai lobi temporali e parietali (posti lateralmente) fino a quelli frontali. A lungo gli scienziati hanno cercato di svelare il segreto di questa facoltà. E per un certo periodo, all’inizio degli anni Duemila, sembravano anche esserci riusciti, con la scoperta di un gene chiamato FOXP2, strettamente legato alla capacità di parlare. Poi però questo gene, con pochissime differenze, è stato trovato in moltissime altre specie. E la comparazione del nostro Dna con quello dell’uomo di Neanderthal l’ha scovato, identico, nel nostro cugino preistorico. Insomma: a renderci umani è (forse) il linguaggio, ma non certamente un singolo pezzo di Dna. «C’è la tentazione a incasellare le funzioni mentali in un solo gene, o in una mappa del cervello, suddivisa per aree come se fosse un puzzle», riprende Rumiati. «Si tratta però di una semplificazione poco realistica. La mente è parecchio più complessa e non abbiamo smesso di studiarla».
COMPLESSITÀ DEL DECIFRARE. Anche la ricerca “del gene” che ci renderebbe diversi dai nostri antenati è frutto di un approccio analogo. La rivista Science ha pubblicato uno studio condotto su cellule di derivazione umana, in cui un gene chiamato NOVA1 era stato modificato, facendogli assumere la forma che aveva decine di migliaia di anni fa, nell’uomo di Neanderthal e in quello di Denisova, i nostri parenti più prossimi. Ebbene: stimolate a differenziarsi in ammassi di neuroni, le cellule hanno mostrato numerose anomalie, che non comparivano invece se il gene non era modificato. Lo studio può chiarire alcuni aspetti dell’evoluzione del cervello, ma non significa che abbiamo scoperto il gene che ci rende “sapiens”. Lo ha sottolineato con grande chiarezza il neurologo Capra, dell’Università della California di San Francisco: «È improbabile che una sola “magica” mutazione genetica produca cambiamenti così rilevanti». Per quanto importante, NOVA1 è insomma un tassello di un mosaico molto elaborato.
QUANDO IL CERVELLO SI AMMALA. La complessità del cervello si riflette nella difficoltà di intervenire per curarlo. L’organo più importante del nostro corpo, infatti, è anche quello più inaccessibile, perché protetto dalle ossa del cranio, dalle meningi (tre membrane di rivestimento) e dalla barriera ematoencefalica. Quest’ultima, situata fra i vasi sanguigni e il tessuto nervoso, impedisce l’ingresso di molti agenti infettivi (non di tutti), di parecchie sostanze chimiche nocive, ma anche dei farmaci. A peggiorare il quadro c’è il fatto che il tessuto nervoso è anche quasi del tutto incapace di “curarsi” da sé. In altre parti del corpo le cellule si rigenerano. Nel cervello questo fenomeno è invece limitatissimo e riguarda soltanto poche aree. Così, se i neuroni si ammalano non c’è nulla che possa sostituirli.
È questo il motivo per cui a far paura sono soprattutto le lesioni nervose, che possono determinare danni permanenti, e le malattie che comportano la degenerazione progressiva dei neuroni, come il morbo di Alzheimer, quello di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica. L’Alzheimer, in particolare, colpisce nel mondo 35 milioni di persone e la sua incidenza è in aumento, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione. La recente approvazione di un farmaco che rallenterebbe il declino cognitivo in questi malati ha suscitato dubbi e polemiche, in quanto a detta di molti l’efficacia del preparato sarebbe estremamente limitata (0,3 punti su una scala da 0 a 18), a fronte di costi elevati ed effetti collaterali rilevanti.
Fonte: Focus