La terra si sta adattando per sopravvivere alla plastica. Dalle profondità degli oceani alla cima dell’Everest milioni di tonnellate di rifiuti non biodegradabili vengono dispersi ogni anno nell’ambiente. Negli ultimi 70 anni la loro produzione è passata da 2 milioni di tonnellate a 380 milioni di tonnellate all’anno. Dal 2020 i numeri sono cresciuti ancora di più, trainati dagli imballaggi delle consegne online e dai dispositivi legati alla cura e alla prevenzione del Covid-19. Ed entro il 2050 – stima un articolo scientifico della rivista Nature – la loro quantità raggiungerà un totale di circa 25 milioni di tonnellate, solo negli ecosistemi marini. Ridurre la produzione di questi scarti e sviluppare tecnologie per il loro riciclo e smaltimento sarà quindi una delle sfide fondamentali per il futuro.
Da uno studio della Chalmers University of Technology di Gothenburg, in Svezia però arriva una notizia positiva: diversi batteri presenti negli oceani e nel suolo di tutto il mondo stanno imparando a mangiare la plastica. Oltre a essere una spia importante dello stato di salute di diversi ecosistemi, la scoperta di questa evoluzione dei microbi terrestri rappresenta una svolta: degradare più rapidamente i materiali plastici potrebbe consentire di abbattere in modo più facile una parte importante dell’inquinamento umano.
Lo studio, pubblicato su Microbial Ecology, è la prima valutazione globale sulle possibilità di smaltire la plastica, connesse a organismi già esistenti. I ricercatori hanno analizzato più di 200 milioni di geni, prelevati dall’ambiente attraverso numerosi campioni di Dna. Il risultato è stato sorprendente: un batterio su quattro – tra quelli scansionati – trasporta un enzima capace di degradare la plastica. In tutto sono 30mila – secondo lo studio – gli enzimi in grado di scomporre 10 tipi di materiali plastici diversi. Presto il loro utilizzo potrebbe diventare fondamentale in campo industriale: permette infatti di scomporre rapidamente nei loro elementi costituitivi anche i materiali più difficili da riciclare. Può rendere così più semplice la loro modifica e ridurre la necessità di produrre nuova plastica.
“Il prossimo passo sarà testare i candidati enzimatici più promettenti in laboratorio per indagare da vicino le loro proprietà e il tasso di degradazione della plastica che possono raggiungere – ha affermato Aleksej Zelezniak, professore alla Chalmers University of Technology – Da lì potremmo progettare comunità microbiche con funzioni di degradazione mirate per specifici tipi di polimeri”.
L’esistenza di batteri soggetti a questo tipo di evoluzione era in realtà nota da qualche anno. La scoperta del primo insetto capace di mangiare la plastica risale al 2016, in una discarica giapponese. Attraverso lo studio e le modifiche al suo patrimonio genetico, nel 2018 gli scienziati sono riusciti a creare un enzima ancora più bravo ad abbattere rifiuti come contenitori e bottigliette. Nel 2020 ulteriori esperimenti ne hanno aumentato di sei volte la velocità di degrado. Nello stesso anno la società francese di biochimica Carbios ha prodotto un altro enzima mutante, per il riciclaggio nella plastica. Mentre in Germania si sta studiando un batterio che si nutre di poliuretano plastico, una sostanza tossica che di solito viene abbandonata nelle discariche.
La ricerca più recente è partita proprio da queste conoscenze. Gli scienziati hanno infatti compilato un set di dati con i 95 enzimi già noti, presenti soprattutto in luoghi ad alta concentrazione di rifiuti. Il team ha cercato enzimi simili, esplorando ben 236 località in tutto il mondo. Il numero e il tipo di molecole è legato alla quantità e alla qualità di inquinamento presente nei diversi luoghi. Si tratta di “una dimostrazione significativa di come l’ambiente sta rispondendo alle pressioni che stiamo esercitando su di esso”, ha affermato ancora il professor Zelezniak. Quasi il 60% delle molecole analizzate era sconosciuta, così come la modalità con cui abbattevano i polimeri.
“Non ci aspettavamo di trovare un numero così elevato di enzimi in così tanti microbi e habitat ambientali diversi – ha dichiarato Jan Zrimec, anche lui della Chalmers University – Questa è una scoperta sorprendente che illustra davvero la portata del problema” della plastica. Diciottomila di questi microrganismi provengono da campioni terrestri, rilevati in 169 località, 38 paesi e 11 habitat diversi. Nel suolo infatti si annidano diversi tipi di plastica, anche con sostanze chimiche e additivi ftalati – per esempio quelli usati per il Pvc nell’industria edile – che i batteri tendono ad attaccare. Dodicimila invece sono stati trovati in 67 località dell’oceano, a tre profondità diverse. Ai livelli superficiali dell’acqua il loro numero è ridotto, mentre cresce man mano che si scende. A testimoniare il maggior grado d’inquinamento dei fondali marini. Proprio ad essi si dovrà guardare per comprendere le prossime evoluzioni degli organismi che convivono con la plastica. Di recente, uno studio pubblicato su Nature ha rivelato infatti che sul Pacific Trash Vortex – un’isola di plastica di 700mila chilometri quadrati nell’Oceano Pacifico – si sta formando un nuovo ecosistema, la comunità neopelagica.
Tra gli interrogativi dei ricercatori c’è l’impatto che un habitat simile causerà a livello di adattamento ai microorganismi che lo occupano. Anche perché il Vortex consente la sopravvivenza di numerosi batteri terrestri lontano dalla costa. In ogni caso la scoperta di questi nuovi enzimi mangia-plastica sarà fondamentale per affrontare l’inquinamento e i suoi effetti diretti sull’uomo: i livelli di microplastiche ingerite dall’uomo – secondo le ultime analisi in laboratorio – causano infatti numerosi danni alle cellule.
Fonte: Il Fatto Quotidiano