“Attenti alle terre rare, senza di loro non ci sarà la transizione ecologica”

Articolo del 07 Febbraio 2022

Sophia Kalantzakos, docente di Studi ambientali e Politiche pubbliche alla New York University, è autrice di «Terre rare» per Egea, la casa editrice della Bocconi. Un saggio che affronta il tema geopolitico della lotta per le risorse minerarie necessarie all’industria tecnologica.

Professoressa, perché i minerali sono diventati strategici?

«La decarbonizzazione dell’economia non è più in discussione e guida la ripresa dal Covid. Le grandi potenze hanno deciso di raggiungere la neutralità carbonica entro la metà del secolo. La volontà politica e il calo dei costi delle tecnologie pulite velocizzano questa transizione. Inoltre nella pandemia l’Intelligenza Artificiale e le reti 5G sono diventate più importanti, anche se consumano minerali concentrati geograficamente e su cui è in corso una lotta tra Stati Uniti e Cina per assicurarseli».

Chi è in vantaggio?

«I minerali e le catene di approvvigionamento sono indispensabili per guidare la trasformazione economica e la Cina domina su entrambi. L’Occidente si è reso conto in ritardo che la nuova Via della Seta è l’unico piano di sviluppo capace di comprendere e semplificare, economicamente, territorialmente e forse anche politicamente, l’Eurasia, l’Africa e perfino il Sud America. I governi dei Paesi in via di sviluppo, dove sono concentrati numerosi minerali, hanno accolto i finanziamenti, l’impegno e la narrativa cinesi di “collaborazioni vantaggiose per tutti”».

L’Afghanistan è davvero un territorio che fa gola?

«Potrebbe essere ricco di alcuni minerali, ma l’esplorazione e l’estrazione richiederebbero anni, senza contare la complicazione di uno Stato fallito. Parlarne serve solo a distrarre dagli sforzi necessari per decarbonizzare l’economia globale. L’ultimo posto su cui contare per i minerali è l’Afghanistan».

Quali sono i minerali più richiesti?

«Le terre rare, ovvero una serie di elementi chimici presenti nelle miniere, sono diventate famose da un giorno all’altro, quando nel 2010 la Cina ha usato un embargo non ufficiale sui minerali per risolvere l’incidente di un peschereccio con il Giappone. A quel tempo la Cina ne controllava il 97 per cento della produzione mondiale e ancora nel 2019 circa il 90. Da allora oltre alle terre rare, il litio e il cobalto sono tra i materiali più ambiti. Il primo serve alla produzione di batterie per veicoli, ma anche per utensili elettrici, dispositivi portatili e applicazioni di accumulo in rete. Questa risorsa è particolarmente concentrata nel triangolo del litio, Argentina, Cile e Bolivia, anche se l’Australia ne è il maggior produttore. Negli anni le aziende cinesi hanno investito in miniere sia in Sud America sia in Australia per assicurarsi di mantenere una posizione dominante nelle industrie a valle, nonché il controllo della catena di approvvigionamento. Lo stesso hanno fatto con il cobalto, fondamentale per smartphone, computer e auto elettriche, la cui produzione mondiale avviene per il 60 per cento in Congo».

Sono materiali necessari per la transizione ecologica?

«Sì, nei loro rapporti gli Stati Uniti hanno definito 35 minerali come fondamentali per la sicurezza e l’economia e l’Ue 30. Secondo la Banca mondiale, la produzione di litio e cobalto potrebbe aumentare del 500 per cento entro il 2050 per soddisfare la sola domanda di energia pulita. Questo mentre, per l’Agenzia internazionale per l’energia, carbone e gas, rappresentano ancora il 60 per cento della fornitura globale di elettricità».

A proposito, il petrolio non doveva finire?

«La crisi climatica è in pieno svolgimento e peggiorerà ben prima della fine del petrolio, che è stato trovato ovunque anche se più costoso da estrarre. Il suo esaurimento non è più un problema, ma data la crisi climatica sorprende che le nazioni continuino a lottare per i diritti di trivellazione».

Le energie alternative quando diverranno predominanti?

«L’elettrificazione dei trasporti è un volano per la decarbonizzazione e con il tempo le rinnovabili diventeranno dominanti. La crisi planetaria non riguarda, però, solo le emissioni, ma anche la biodiversità, l’acqua e il modello economico».

Gli Stati Uniti sono sufficientemente impegnati in tal senso?

«La Presidenza Biden è tornata a occuparsene. C’è un Green New Deal ambizioso per far ripartire l’economia, favorendo decarbonizzazione e digitalizzazione, ma purtroppo sono temi politicizzati. L’America è divisa e potrebbero esserci inversioni di rotta e per questo l’amministrazione attuale vuole cementare la transizione prima delle elezioni di medio termine».

Ha ricordato il vantaggio cinese nella gara sui minerali, ma la corsa ai vaccini non dimostra che la supremazia tecnologica è ancora americana?

«L’America ha sempre una solida base industriale e tecnologica e il suo sistema finanziario versatile aiuta a sostenere i progetti in modo efficace e rapido. Il governo inoltre non esita a versare cifre enormi per ottenere risultati. Mancano però la coesione politica e il consenso. Gli Stati Uniti hanno più vaccini di altri Paesi, ma tante persone sono riluttanti a usarli. Questo è ciò che minaccia gli Stati Uniti e la loro leadership».

Quale ruolo per l’Europa tra i colossi Usa e Cina?

«L’Ue si è mossa intelligentemente su decarbonizzazione e digitalizzazione e ha scelto, a differenza degli Stati Uniti, di attrarre investimenti globali, costruire nuove reti di interdipendenza e rafforzare quelle esistenti senza alienarsi la Cina. Nel 2017 ha creato l’Alleanza per le batterie essenziali per il trasporto, l’energia e l’industria. E con la stessa logica nel 2020 ha lanciato l’Alleanza per le materie prime. Lo stesso vale per il Piano di coordinamento sull’Intelligenza Artificiale etica e sicura. Così l’Ue riduce le tensioni geopolitiche e mantiene alta l’attenzione sulla crisi climatica».

Nel libro parla di re-immaginare la geopolitica, che cosa intende?

«Le crisi di oggi, dal clima alla pandemia, sono globali. E anche l’economia, dalla quarta rivoluzione industriale alla decarbonizzazione. C’è necessità, dunque, di condividere le conoscenze e sviluppare le capacità del mondo in via di sviluppo per garantire un allineamento globale. Non possiamo avere una situazione geopolitica tesa e contemporaneamente proclamare di lavorare per salvare il Pianeta».

 

Fonte: La Stampa

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