La sua estrema diffusione fa pensare che siano destinati ad aumentare significativamente i soggetti colpiti a lungo termine da sintomi come affaticamento, mal di testa, dolore e mancanza di respiro. Per affrontare il problema occorre un approccio multidisciplinare dedicato e condiviso dalla maggior parte delle strutture sanitarie.

Quando è partita la gigantesca ondata di Omicron, molte persone sono rimaste confortate dai dati che suggeriscono che questa variante è più mite rispetto alle versioni precedenti del coronavirus. Ma una domanda pressante è se Omicron possa cambiare il rischio di “long COVID,” un insieme di sintomi debilitanti che includono affaticamento, mal di testa, dolore e mancanza di respiro che può durare per mesi dopo un’infezione iniziale. Omicron ha meno probabilità di causare questa sindrome, o il pericolo rimane alto come per altre varianti?

Le potenziali implicazioni della risposta a questa domanda sono enormi. Omicron è incredibilmente contagiosa e ha infettato molti milioni di persone: se solo una piccola frazione dei soggetti che ne vengono contagiati sviluppasse long COVID, milioni di persone potrebbero essere colpite da sintomi per mesi, se non anni. Tale condizione può rendere impossibile lavorare e difficile preparare i pasti o prendersi cura dei figli, dichiara David Putrino, specialista di medicina della riabilitazione presso la Icahn School of Medicine al Mount Sinai di New York che tratta i pazienti con long COVID, a volte chiamati “portatori a lungo termine”.

I ricercatori che studiano il long COVID che, secondo le stime, pesa sul 14-30 per cento delle persone infettate dal coronavirus, sostengono che siccome Omicron è apparsa assai recente è possibile fare solo ipotesi informate sul suo impatto a lungo termine. Ma gli scienziati notano che ci sono ragioni per essere sia cautamente ottimisti sia molto preoccupati.

Sul versante preoccupante, per esempio, la mitezza iniziale di un’infezione può non dire nulla sulla probabilità di long COVID; anche se gli studi hanno mostrato che i soggetti non ricoverati per la malattia, rispetto a quelli che lo sono, hanno meno problemi di salute persistenti nel tempo, questi risultati potrebbero essere collegati in parte alla cosiddetta sindrome da post-terapia intensiva, o PICS, invece che alla gravità iniziale della malattia. Una percentuale variabile tra il 30 e l’80 per cento delle persone si lamenta di annebbiamento mentale e debolezza dopo il ricovero in terapia intensiva per qualsiasi malattia – non solo COVID – e i sintomi possono durare per più di un anno. Uno studio britannico dell’ottobre 2021 ha seguito più di 1000 pazienti ricoverati per COVID. È emerso che il 71 per cento di loro sentiva di non aver completamente recuperato quasi sei mesi dopo, ma che l’entità dell’impatto persistente sulla loro salute era solo debolmente associato alla gravità della loro malattia acuta.

Anche i casi lievi della malattia possono portare e portano a long COVID. Infatti, la maggior parte dei casi di lunga durata si è sviluppata dopo infezioni lievi, in parte perché ci sono molti più casi di COVID lievi che gravi, spiega Claire Steves, geriatra del King’s College London. “Se si guarda un’intera popolazione di soggetti con long COVID, diversi di loro avranno avuto una malattia lieve, per cominciare”, spiega. I sintomi a lungo termine possono svilupparsi anche dopo infezioni asintomatiche. Putrino afferma che a volte le persone “sanno di avere il COVID da un test PCR [un test molecolare, NdR], ma in realtà non hanno sperimentato alcun sintomo. E poi iniziano a essere afflitti da sintomi persistenti”.

Per ogni data persona, la buona notizia è che non c’è motivo di pensare, a questo punto, che Omicron avrà più probabilità di causare una condizione a lungo termine rispetto ad altre varianti. E Caroline Maslo, infettivologa presso l’ospedale Netcare a Johannesburg, in Sudafrica, sottolinea di non aver ancora visto, a livello aneddotico, prove di sintomi persistenti nei suoi pazienti nel paese.

Ricerche recenti su modelli animali suggeriscono che Omicron possa anche danneggiare i polmoni meno delle varianti precedenti. Ma non è chiaro come questa differenza possa influenzare il rischio di long COVID, spiega Jeanne Marrazzo, infettivologa che studia questa condizione presso l’Università dell’Alabama a Birmingham. I problemi polmonari persistenti possono essere meno frequenti dopo Omicron che dopo le varianti precedenti. Ma i sintomi di long COVID molto più comuni includono affaticamento, perdita di gusto od odore e annebbiamento cerebrale, che non hanno nulla a che fare con i polmoni. “Solo perché il virus non entra nei polmoni non significa che non abbia accesso al sistema nervoso centrale”, sottolinea Marrazzo.

Un fattore positivo che potrebbe diminuire l’impatto a lungo termine di Omicron è la prevalenza delle vaccinazioni, che sono più comuni ora che nelle precedenti ondate di varianti. I richiami non solo riducono il rischio di malattie gravi, in primo luogo, ma diminuiscono anche la possibilità di sviluppare long COVID in caso di un’infezione post-vaccinale. A settembre, Steves e i suoi colleghi hanno riferito i risultati di uno studio basato sui dati riportati a un’applicazione gratuita per smartphone per il monitoraggio della salute da più di un milione di adulti del Regno Unito. Dallo studio è emerso che solo il cinque per cento dei soggetti che hanno avuto un’infezione post-vaccinale dopo aver ricevuto due dosi di un vaccino per COVID-19 ha avuto sintomi che si sono protratti per almeno 28 giorni, rispetto all’11 per cento delle persone non vaccinate che hanno avuto la malattia, il che significa che la vaccinazione completa era legata a una riduzione del rischio di oltre la metà.

Diversi preprint – studi che non sono ancora stati pubblicati su riviste peerreview – suggeriscono anche che la vaccinazione riduce il rischio long COVID, ma in misura diversa: un preprint di gennaio basato su dati provenienti da Israele fa eco ai risultati dello studio di Steves, mostrando che le persone completamente vaccinate con infezioni post-vaccinali erano meno della metà della probabilità di sviluppare sintomi di long COVID. In un’analisi del novembre 2021 di più di 240.000 cartelle cliniche elettroniche degli Stati Uniti, i ricercatori hanno riferito che le persone che avevano ricevuto almeno una dose di un vaccino avevano una probabilità da sette a dieci volte inferiore, rispetto agli individui non vaccinati, di manifestare due o più sintomi di long COVID da 12 a 20 settimane dopo la loro diagnosi. Un altro preprint pubblicato lo scorso autunno, tuttavia, non ha collegato la vaccinazione a una riduzione complessiva dei problemi persistenti. Ma questo studio ha mostrato che i richiami hanno ridotto il rischio di alcuni sintomi specifici associati a long COVID, tra cui stanchezza, dolori muscolari, dolore e perdita di olfatto.

Non ci sono ancora dati su come i richiami influenzino il rischio di long COVID. Ma è plausibile che riducano ulteriormente il pericolo, spiega Akiko Iwasaki, immunobiologa della Yale University, che studia la sindrome. “Questa è la mia previsione”, aggiunge.

In definitiva, medici e ricercatori si aspettano che Omicron possa causare sintomi persistenti in alcune persone: è solo una questione di quanti. “La mia ipotesi è che Omicron, proprio come qualsiasi altra variante, porterà a un long COVID”, spiega Iwasaki. E spera che la vaccinazione spinga la percentuale di casi più in basso rispetto al passato.

Eppure Putrino è preoccupato: anche se la percentuale di persone che sviluppano la malattia persistente con Omicron è più bassa, sono così tanti i milioni di persone che si stanno infettando con la variante che il numero complessivo di pazienti a lungo termine dopo questa ondata potrebbe essere incredibilmente alto. “C’è la tentazione di dire ‘Ecco, sta diventando endemica. Basta uscire e farla finita”, spiega. “Ma stiamo vedendo in prima persona quanto sia devastante per un individuo vivere con il long COVID. Non sembra un rischio proporzionato. Per me, sembra una scommessa davvero enorme [supporre] che non sarai l’uno su dieci, o anche l’uno su 100, che continua ad avere l’intera vita sconvolta.”

Per prepararsi a una potenziale esplosione di pazienti a lungo termine in tutti gli Stati Uniti, Upinder Singh, esperto di malattie infettive della Stanford University School of Medicine, ritiene che i centri medici dovrebbero creare cliniche interdisciplinari di assistenza specialistica per i pazienti a lungo termine, che possano guidare questi pazienti verso gli specialisti di cui hanno bisogno, per iniziare il trattamento e identificare le persone che potrebbero candidarsi per gli studi clinici in corso. Lo stanno già facendo alcuni grandi ospedali, come quelli dell’Università del North Carolina a Chapel Hill, della George Washington University di Washington, il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles e il programma di Putrino al Mount Sinai.

Putrino aggiunge che gli ospedali e i centri medici hanno anche bisogno di trovare procedure più snelle per rendere disponibili ai pazienti i vari esami di cui hanno bisogno per identificare ciò che sta andando male. “La maggior parte delle persone con long COVD ha bisogno di un controllo complesso e multisistemico”, che può richiedere tempo per essere completato perché richiede appuntamenti con più medici, conclude. “Nel frattempo, le persone si ammalano di più.”

 

Fonte: Le Scienze

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