Sostanze nocive, inquinanti e rifiuti vari pesano sempre di più sulla salute delle persone in tutto il mondo. Ecco perché la prossima settimana, all’assemblea sull’ambiente delle Nazioni Unite, un gruppo di nazioni chiederà l’istituzione di un organismo dedicato all’inquinamento e destinato a fornire supporto e coordinamento ai decisori politici.

L’inquinamento non conosce confini: entra ed esce dalle finestre di casa, si insinua dall’acqua nel suolo e viceversa, si fa beffe delle frontiere tracciate dall’essere umano sulle mappe. Il suo impatto sulla salute umana è spaventoso e al tempo stesso spaventosamente sottovalutato. Ogni anno un milione di persone muore prematuramente a causa dell’esposizione a sostanze nocive, inquinanti e rifiuti vari.

La stima, già di per sé imponente, schizza alle stelle includendo i decessi dovuti all’inquinamento dell’aria: secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), l’inquinamento atmosferico e quello domestico causano ogni anno sette milioni di morti premature. A confronto, la pandemia di COVID-19 ha provocato circa sei milioni di morti in due anni. Come se non bastasse, lo scenario è reso ancora più fosco dalla crescente proliferazione dei cosiddetti contaminanti emergenti, cioè le nuove sostanze di sintesi industriale di cui non si conoscono appieno gli effetti sulla salute umana. E che, dunque, difficilmente vengono regolamentate.

Della necessità di istituire un’adeguata supervisione globale all’universo delle contaminazioni se ne discute da tempo ma, negli ultimi mesi, il processo ha subito un’accelerazione. Nel tentativo di arginare questo fiume in piena, una cordata di nazioni chiederà, nel corso della prossima assemblea sull’ambiente delle Nazioni Unite – in programma dal 28 febbraio al 2 marzo a Nairobi, in Kenya – l’istituzione di un organismo intergovernativo dedicato all’inquinamento.

L’iniziativa è partita dall’International Panel of Chemical Pollution, un’organizzazione internazionale senza fini di lucro che raduna gli scienziati impegnati nel settore. Di ricercatore in ricercatore, la richiesta al rispettivo governo di sostenere la bozza di risoluzione depositata in dicembre è dilagata tra i paesi. E così, attorno allo sparuto manipolo di sottoscrittori della prima ora – formato da Costa Rica, Ghana, Mali, Regno Unito, Svizzera e Uruguay – negli ultimi due mesi si è formato un discreto drappello. Nel momento in cui scriviamo, hanno confermato il supporto anche Austria, Belgio, Burkina Faso, Danimarca, Germania, Niger, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi e Svezia. La speranza è che entro fine mese il drappello diventi almeno un contingente, possibilmente irrobustito dal supporto dei grandi inquinatori, come Cina, India o Stati Uniti e dei grandi produttori chimici. Tra questi ultimi c’è anche l’Italia che, secondo il più recente rapporto di Federchimica, occupa il terzo posto della classifica continentale e il decimo di quella globale in termini di valore della produzione.

Anche per questa ragione, nei giorni scorsi oltre 250 ricercatori italiani, tra i quali il premio Nobel Giorgio Parisi, hanno sottoscritto una lettera indirizzata al ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, per chiedere di supportare la risoluzione. “È un’occasione importante per dare seguito all’inserimento, lo scorso 8 febbraio, della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi fra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana” commenta Sara Valsecchi dell’Istituto di ricerche sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche, tra gli istituti promotori della lettera indirizzata al ministro.

Il modello proposto per la formazione di questo nuovo comitato di esperti è lo stesso dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo mondiale sul cambiamento climatico: una struttura orizzontale e indipendente che possa mettere in connessione conoscenze già esistenti ma che attualmente sono disperse in una miriade di centri di ricerca e agenzie settoriali che non sempre comunicano tra loro.

Il nuovo panel andrebbe a coprire settori di competenza incerta, sospesi perlopiù tra OMS e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), che non a caso saranno chiamati a supervisionare la sua gestazione. Grazie al loro supporto, gli addetti ai lavori ipotizzano che l’istituzione del nuovo organismo potrebbe essere molto rapida, tanto che i più ottimisti azzardano un paio di anni.

Il panel sarà chiamato a fornire supporto e coordinamento ai decisori politici nell’identificazione, gestione e mitigazione di sostanze che, in vario modo, possono provocare catastrofi a più livelli: sanitario, ambientale e sociale. “Da tempo la comunità scientifica cerca di mettere in guardia la politica, finora con scarso successo: attualmente esistono lacune importanti nella normativa internazionale di svariate sostanze nocive per la salute”, premette Andrea Bonisoli Alquati, professore di ecotossicologia alla California State Polytechnic University a Pomona.

Le convenzioni internazionali sulle sostanze inquinanti, come quella di Minamata sul mercurio o quella di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti – tuttora non ratificata dall’Italia dopo quasi vent’anni dall’entrata in vigore – non possono bastare perché lasciano scoperte numerose situazioni critiche e soprattutto non dispongono di meccanismi per affrontare in modo proattivo le nuove minacce. “Capiamoci, le convenzioni internazionali funzionano, basti pensare al successo del protocollo di Montréal nel ridurre le sostanze che provocano il buco nell’ozono. Tuttavia, esse sono poche e soprattutto rispondono a conoscenze stratificate. In altri termini, sono efficaci per contrastare gli effetti di sostanze note, ma insufficienti a fronteggiare quelle nuove” riprende Bonisoli Alquati.

Dal 1950 a oggi la produzione globale di sostanze chimiche è aumentata di 50 volte e si prevede che, nel 2050 triplicherà il volume del 2010. Il numero esatto è impossibile da stabilire ma si stima che oggi il mercato accolga circa 350.000 sostanze chimiche, 70.000 delle quali sono state registrate nell’ultimo decennio. In altre parole, ogni anno l’industria chimica produce migliaia di nuove sostanze i cui effetti sulla salute dell’uomo sono spesso poco compresi. Almeno finché non succede la catastrofe.

“La comunità scientifica – sottolinea Bonisoli Alquati – non ha né il tempo né le risorse per valutare ogni singola sostanza prodotta dall’industria chimica. Inoltre, in molti casi, le aziende non sono tenute a dimostrare la sicurezza dei composti e talvolta sottostimano deliberatamente la loro pericolosità. L’istituzione di un organismo intergovernativo dedicato permetterebbe di intervenire precocemente contro eventuali contaminazioni sconosciute. E non più a cose fatte, come invece accade oggi.”

Dall’istituzione di un panel simile non trarrebbero beneficio solamente le nazioni in via di sviluppo: la contaminazione da PFAS delle falde acquifere del Veneto o i rifiuti tossici della “terra dei fuochi” in Campania sono solo due dei casi più eclatanti e recenti di una malattia cronica molto diffusa anche nel nostro paese. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, il Belpaese ospita ben 42 siti di interesse nazionale, cioè grandi aree talmente contaminate da richiedere una bonifica radicale. “Molte sostanze chimiche permangono nell’ambiente per decenni dalla loro emissione e continuano ad accumularsi. Come se non bastasse, ogni anno continuiamo a produrre rifiuti come plastica e scarti elettronici in quantità massicce. È indispensabile agire ora ed essere lungimiranti. Se non si agisce in modo rapido ed efficace, potremmo arrivare a una situazione irreversibile”, nota Marta Venier, professoressa di chimica ambientale all’Università dell’Indiana.

“Da cittadino, prima ancora che da scienziato, la mia speranza è che il ministro della transizione ecologica, e dunque l’Italia, supporti l’iniziativa. L’impatto dell’inquinamento, in tutte le sue forme, sulla salute delle persone e degli ecosistemi è imponente e ormai ben documentato. Non si tratta di attivismo ambientale ma di scienza: lo sviluppo economico non può prescindere dallo stato di salute delle persone e del territorio”, conclude Bonisoli Alquati. Qualora venisse istituito, quello sull’inquinamento diverrebbe il terzo panel delle Nazioni Unite dopo quello sul clima (IPCC, creato nel 1988) e quello sulla biodiversità (IPBES, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, creato nel 2012). L’auspicio è che possa ricevere più ascolto di quanto abbiano ricevuto finora i suoi predecessori.

 

Fonte: Le Scienze

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