PFAS è l’acronimo inglese di Per- and polyFluorinated Alkylated Substances, che in italiano si traduce in Sostanze Per- e polifluoro-Alchiliche. Queste costituiscono una grande famiglia di sostanze chimiche sintetiche costituite da una catena alchilica idrofobica completamente (per-) o parzialmente (poli-) fluorurata.

Lasciami spiegare meglio. In sostanza, sono molecole composte da tanti atomi di carbonio legati tra loro a formare una catena lineare o ramificata, dove tutti o parte di questi atomi di carbonio sono legati ad atomi di fluoro. La presenza di numerosi legami carbonio-fluoro conferisce particolari caratteristiche fisico-chimiche, come la repellenza all’acqua (per questo idrofobica).

I PFAS sono ampiamente utilizzati in diversi settori, sin dagli anni ’50, in virtù delle loro proprietà idrorepellenti e oleorepellenti. Tra gli impieghi più diffusi vi è la concia delle pelli, il trattamento dei tappeti, la produzione della carta e del cartone per uso alimentare, il rivestimento di padelle antiaderenti (Teflon®), la realizzazione di tessuto tecnico idrorepellente (Gore-Tex®, Scotchgard™) e la produzione di altri oggetti impermeabili.

Sono acidi molto forti, con una struttura chimica che conferisce loro una particolare stabilità termica e li rende resistenti ai principali processi naturali di degradazione. I legami carbonio-fluoro sono, infatti, tra i legami chimici più forti nella chimica organica. All’estremità della catena carboniosa si trova un gruppo funzionale polare, generalmente carbossilato, solfonato o fosfato.

Nella grande famiglia dei PFASi due composti più diffusi sono l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e l’acido perfluoroottanosolfonato (PFOS). Il PFOA è molto usato nella produzione dello strato antiaderente di pentole e padelle a basso costo, mentre il PFOS è usato per la produzione di schiume antincendio. PFOA e PFOS, entrambi con una catena di 8 atomi di carbonio, hanno un’elevata persistenza nell’ambiente (oltre 5 anni).

Il problema ambientale e della salute umana

Se smaltiti illegalmente o in modo scorretto nell’ambiente, i PFAS penetrano nelle falde acquifere e raggiungono i campi e i prodotti agricoli attraverso l’acqua. Inevitabilmente, ce li ritroviamo anche negli alimenti.

Ma quale impatto hanno sulla nostra salute?

Trattandosi di sostanze relativamente nuove, tale impatto non è ancora stato studiato a fondo.

L’EFSA ha pubblicato nel 2020 un parere scientifico, maturato sui riscontri ricevuti da organismi scientifici, cittadini ed enti competenti degli Stati membri. Tra gli effetti individuati vi è un aumento del colesterolo e una diminuzione della risposta immunitaria alle vaccinazioni.

In base ad altri studi, primi tra tutti quelli condotti negli Stati Uniti nell’ambito del cosiddetto “C8 Health Project”, che ha riguardato circa 70.000 persone esposte a PFAS tramite l’acqua potabile in Ohio e in West Virginia a partire dagli anni ’50, si ritiene che i PFAS intervengano sul sistema endocrino, compromettendo crescita e fertilità, e che siano sostanze cancerogene.

Si sospetta, inoltre, lo sviluppo di malattie tiroidee, ipertensione gravidica e coliti ulcerose, nonché una relazione tra le patologie fetali e gestazionali e la contaminazione da queste sostanze. [3] L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato PFOA come possibilmente associato (gruppo 2b) ai tumori del rene e del testicolo.

La loro tossicità, specialmente ad alte concentrazioni, non riguarda solo l’uomo, ma tutti gli organismi viventi. I PFAS tendono infatti ad accumularsi nell’organismo attraverso processi di biomagnificazione.

Nell’uomo si accumulano e si ritrovano nel plasma, nel fegato e in minor misura nei reni. L’eliminazione è molto lenta, perché una volta filtrati nelle urine subiscono un processo di riassorbimento che li riporta in circolo.  Il tempo necessario perché i livelli nel sangue si riducano a metà nell’uomo, se non si è più esposti, è in media di 5,4 anni per il PFOS e di 3,8 anni per il PFOA.

Il caso del Veneto

Nel 2013 è stato rilevato un importante inquinamento da PFAS nell’area compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova. Si tratta del più grande inquinamento di PFAS d’Europa per importanza ed estensione. L’intervento tempestivo ha permesso alle autorità regionali di mettere in sicurezza l’acqua potabile della zona interessata, tramite l’utilizzo di filtri a carboni attivi.

A seguito dei vari solleciti della Regione, il 29 gennaio 2014 il Ministero della Salute ha comunicato i valori massimi di concentrazione nelle acque destinate a consumo umano:

  • 300 ng/L per i PFOS;
  • 500 ng/L per i PFOA;
  • 500 ng/L per gli altri PFAS.

Nel 2015, l’azienda sanitaria locale vicentina avvia un primo screening su 270 persone dal quale emergono i primi casi che superano di 35 volte il limite di 8 ng/Kg di peso corporeo alla settimana di PFAS nel sangue. Si noti che, dal 2020, la nuova soglia di sicurezza stabilita dall’EFSA è stata ridotta a 4,4 ng/Kg di peso corporeo alla settimana.

Ai circa 2.000 cittadini residenti nella zona a più elevata concentrazione è stato proposto di sottoporsi a un trattamento di lavaggio del sangue: la plasmaferesi. Questa tecnica permette di separare la componente liquida del sangue (il plasma) dalla componente cellulare e rimuovere le sostanze dannose.

Per tamponare almeno in parte il problema, il 3 ottobre 2017 la giunta regionale del Veneto ha imposto limiti più restrittivi circa la presenza di sostanze perfluoroalchiliche nell’acqua potabile:

  • 30 ng/L per i PFOS;
  • 90 ng/L per la somma di PFOA e PFOS.

L’allarme in Piemonte

Sulla scia delle vicende venete, in Piemonte ha iniziato a muovere i primi passi un movimento di protesta sulla presenza dei PFAS. Il Piemonte è tra le prime regioni italiane a sancire il divieto di scarico di tali sostanze nel suolo e negli strati superficiali del sottosuolo e a stabilire i limiti allo scarico in acque superficiali. Alcuni di questi limiti, molto più stringenti rispetto a quelli definiti dal Ministero della Salute nel 2014, sono:

  • 20 ng/L nei primi 36 mesi dalla data di entrata in vigore e 0,65 ng/L dopo 36 mesi dalla data di entrata in vigore per i PFOS;
  • 300 ng/L nei primi 36 mesi dalla data di entrata in vigore e 100 ng/L dopo 36 mesi dalla data di entrata in vigore per i PFOA.

Altri PFAS hanno limiti tutti inferiori ai 7000 ng/L, per vederli nel dettaglio basta consultare l’allegato A dell’Art. 74 della Legge regionale 19 ottobre 2021, n. 25.

Conclusioni

Considerate le concentrazioni anomale registrate in alcune zone, è di fondamentale importanza che gli enti competenti si impegnino a limitare il più possibile la diffusione degli PFAS e a adottare il prima possibile delle misure di contenimento e rimedio per i danni ambientali già esistenti, allo scopo di salvaguardare la salute pubblica.

Da tempo si sta provando a rimpiazzare, anche parzialmente, le sostanze perfluoroalchiliche con prodotti alternativi, come composti fluorurati di nuova generazione e surfattanti non fluorurati.

 

Fonte: Missione Scienza

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