Effetti collaterali minimi. Lunga durata. E una scarsissima concorrenza, visto che da decenni la medicina stenta a fare passi in avanti concreti (almeno sotto il profilo farmacologico) nella cura dei disturbi mentali. Un biglietto da visita di tutto rispetto, insomma, per quelle che in molti iniziano a vedere come la prossima rivoluzione in psichiatria: le sostanze psichedeliche. O più precisamente, la psicoterapia psichedelica, che utilizza psilocibina (il principio attivo contenuto nei funghi psichedelici), Lsd, Mdma e altre sostanze psicoattive all’interno di precisi protocolli terapeutici, e le affianca a sessioni di psicoterapia studiate per massimizzare i benefici delle esperienze lisergiche, e minimizzarne al contempo i rischi.
Rischi che la ricerca, comunque, non fa che riconsiderare al ribasso. Una recente metanalisi, per esempio, ha appena smentito una delle preoccupazioni più diffuse (quantomeno nel grande pubblico) riguardo all’utilizzo delle sostanze psichedeliche, e cioè che, in persone predisposte, possano aumentare il rischio di suicidio: utilizzate in un setting medico sembrano anzi ridurre efficacemente le probabilità che i pazienti tentino (o pensino) di togliersi la vita.
La metanalisi
Il nuovo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Psychiatry, ha analizzato i dati provenienti da tutti i trial clinici sulla psicoterapia psichedelica pubblicati su riviste scientifiche entro il novembre del 2005, nei quali fossero disponibili anche informazioni riguardo alla suicidalità, cioè alla comparsa di fantasie, azioni e comportamenti collegati al suicidio. Identificate sette ricerche che rientravano nei criteri scelti, i ricercatori hanno quindi valutato l’associazione tra terapia psichedelica e suicidalità, scoprendo che indipendentemente dalla terapia effettuata e dalle caratteristiche dei pazienti, queste strategie terapeutiche sono associate a una forte e duratura diminuzione degli indicatori su cui si calcola la propensione al suicidio.
In un editoriale che accompagna la metanalisi, gli psicologi Daniel Grossman, e Peter Hendricks, della University of Alabama at Birmingham non stentano a definire estremamente ottimistiche le prospettive future della psicoterapia psichedelica nella prevenzione dei suicidi, alla luce di questi nuovi risultati. Un campo promettente, che richiederà però ancora molto lavoro per ottenere dati più consistenti, e identificare con più precisione quali pazienti possono trarre i maggiori benefici da queste terapie, e quali, per quanto rari, potrebbero invece essere esposti a qualche rischio. Nonostante le sostanze psichedeliche siano note, usate e abusate da quasi un secolo (per sostanze come la psilocibina parliamo in realtà di diversi millenni), le ricerche in campo medico sono riprese in effetti solo di recente, dopo una moratoria sociale e legale che ne ha impedito lo studio per quasi due decenni. E solo negli ultimi anni stanno iniziando a concretizzarsi realmente.
War on drugs
Le cosiddette droghe psichedeliche in effetti hanno ancora una pessima reputazione. Ma per quasi due decenni, a partire più o meno dagli anni ’50, sono state al centro di intense ricerche in campo medico. Venivano utilizzate per curare l’alcolismo e altre forme di dipendenza, per aiutare la socialità delle persone con autismo, per alleviare ansia e depressione nei malati terminali.
Timothy Leary, probabilmente il più famoso ambasciatore della cultura psichedelica, le sperimentò come strumento per modificare gli atteggiamenti antisociali dei criminali incalliti, e più in generale, ne consigliava l’utilizzo per liberare la mente ed aprirla ad esperienze trascendentali. Proprio questo aspetto pop della cultura psichedelica si rivelò, in breve tempo, la sua rovina: Lsd, mescalina e funghi allucinogeni iniziarono a radicarsi nei riti e negli eccessi della controcultura degli anni ’60, provocando la reazione delle parti più conservatrici della società americana. Dopo decenni di diffusione legale, nel 1970 il presidente americano Richard Nixon ne vietò definitivamente l’utilizzo, inserendole nella categoria più restrittiva di sostanze proibite dalla legislazione americana, di cui è impedito l’utilizzo anche a scopi medici. Presto, il resto del mondo occidentale si uniformò alla decisione americana, e le ricerche nel campo della psicoterapia psichedelica divennero, di fatto, illegali più o meno ovunque.
Per un cambio di rotta è stato necessario aspettare ben 22 anni. E il mondo ormai era molto diverso da quello degli anni ‘70: negli anni ’90 gli sviluppi nel campo dell’imaging cerebrale avevano reso possibile studiare in tempo reale l’attività del cervello, permettendo di indagare con precisione gli effetti delle sostanze psichedeliche sia negli esseri umani che negli animali, e i cambiamenti nella cultura americana avevano allontanato in qualche modo dal radar Lsd e funghi allucinogeni. È in questo clima che, nel 1992, l’Fda ha organizza uno storico incontro sugli allucinogeni, al termine del quale sono state nuovamente aperte le porte alle ricerche sulle sostanze psichedeliche, seppur all’interno di rigorosi protocolli scientifici.
Una nuova primavera
In seguito alla storica apertura della Food and drugs administration (Fda), le ricerche sulla psicoterapia psichedelica hanno ripreso progressivamente forza. Per disturbi come la sindrome da stress post traumatico, il disturbo ossessivo compulsivo, la depressione, le dipendenze, mancano da decenni concreti passi in avanti terapeutici, e questo un po’ alla volta ha contribuito ad aiutare gli allucinogeni a conquistare sempre più simpatizzanti in campo scientifico. Decine di ricerche negli ultimi anni hanno indagato e confermato la sicurezza di sostanze come la psilocibina, l’Mdma, e l’Lsd, mettendo in luce enormi opportunità terapeutiche in campo psichiatrico. Una sostanza come la ketamina (un sedativo con effetti allucinogeni, molto utilizzato anche come sostanza d’abuso) ha guadagnato moltissimi consensi per la terapia della depressione, portando allo sviluppo di un suo derivato, l’esketamina, che ha ricevuto l’approvazione per il trattamento delle forme di depressione resistenti ai farmaci.
Anche sull’onda di questi successi, da ottobre dello scorso anno il National Institute of Health americano ha rotto gli indugi, finanziando per la prima volta uno studio che coinvolge sostanze psichedeliche: la psilocibina, in particolare, di cui i ricercatori della John Hopkins University stanno indagando l’efficacia contro la dipendenza dal fumo di sigaretta. Ovviamente, quello che viene sperimentato oggi non è l’utilizzo disinvolto che si poteva osservare nel dopoguerra. I protocolli di psicoterapia psichedelica sono estremamente rigidi. Prevedono pochissime sessioni in cui viene utilizzata la sostanza, sotto supervisione dei terapeuti, e sessioni di psicoterapia che precedono e seguono l’assunzione, per preparare il paziente e aiutarlo ad elaborare le esperienze fatte.
La sostanza più studiata è la ketamina, sulla quale sono stati già effettuati più di una cinquantina di trial clinici. A seguire, l’Mdma, indagata in quasi 20 trial clinici come terapia contro il disturbo da stress post traumatico (indicazione per cui ha già ricevuto la designazione di breakthrough therapy dall’Fda), l’ansia e l’abuso di alcol, e l’ansia sociale in persone con autismo. E quindi la psilocibina (breakthrough therapy per la depressione resistente ai farmaci), con una decina di trial clinici contro depressione, dipendenze, e ansia in pazienti terminali. L’Lsd in tempi recenti è invece ancora poco studiato, perché si tratta di una sostanza allucinogena estremamente potente, ma è considerato promettente per il trattamento di disturbi dell’umore, ansia, e anche emicranie.
Con tanto interesse attorno al mondo della “psichiatria psichedelica”, non resta che chiedersi quando verranno approvate le prossime terapie. Ma rispondere è difficiel. Esistono problemi oggettivi (come l’impossibilità di effettuare studi randomizzati in doppio cieco, il golden standard in medicina, visto che è impossibile nascondere ai pazienti di aver assunto una sostanza come l’Lsd), e una generale mancanza di interesse economico nel loro sviluppo. Si tratta di sostanze per lo più prive di brevetto, e senza i capitali dell’industria farmaceutica è difficile effettuare i grandi trial clinici necessari per superare il vaglio delle agenzie regolatorie. La storia della ketamina (il cui brevetto è scaduto da due decenni), in questo senso, è probabilmente emblematica: nonostante anni di ricerche e un generale consenso sulla sua efficacia, l’approvazione è arrivata solamente quando la Janssen Pharmaceuticals ha brevettato un suo derivato, l’esketamina, finanziando le ricerche necessarie.
Fonte: Galileo