Secondo il Nono Rapporto Itinerari Previdenziali, sono 476.283 gli assegni previdenziali pagati dall’INPS da 40 anni o più a persone andate in pensione nel lontano 1980 o ancora prima: l’analisi delle decorrenze pensionistiche evidenzia un sistema previdenziale sin troppo generoso tra 1965 e 1980, con effetti che gravano tuttora sul welfare.

All’1 gennaio 2021 risultavano in pagamento presso l’INPS ben 476.283 prestazioni pensionistiche – comprese quelle ex INPDAP relative ai dipendenti pubblici – liquidate da oltre 40 anni, e quindi erogate a persone andate in pensione nel 1980, o anche prima. Nel dettaglio, si tratta di 423.009 prestazioni del settore privato, fruite sia da lavoratori dipendenti che autonomi, di cui 343.064 donne (l’81,1%) e 79.945 (il 18,9%) uomini, e di 53.724 pensione fruite da dipendenti pubblici, di cui 36.372 (il 68,3%) donne e 16.902 (il 31,7%) uomini. Lo scorso anno erano nel solo comparto privato 502.327, con un decremento rispetto all’1 gennaio 2020 del 16%, pari a 79.318 prestazioni eliminate, e in buona parte tristemente imputabile agli effetti di COVID-19.

Se si considera che prestazioni corrette sotto il profilo attuariale dovrebbero essere correlate alla durata della vita contributiva attiva, che in media in Italia è di circa 20 anni per le pensioni di vecchiaia e di 35 anni per le anticipate, quelle evidenziate dal Nono Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, presentato lo scorso 15 febbraio nella prestigiosa cornice del Senato della Repubblica, sono cifre destinate a far riflettere. Attraverso l’esame in serie storica delle pensioni ancora in vigore all’1 gennaio 2021, a partire da quelle decorrenti dal 1980 (o anni precedenti), il documento – formulato tenendo conto delle età medie rilevate dagli Osservatori Statistici dell’INPS – consente infatti di ricavare alcuni importanti indicatori sull’evoluzione della normativa italiana in ambito pensionistico e sugli effetti prodotti dalle diverse leggi in materia sulla spesa pubblica del Paese.

Con il chiaro intento di evidenziare errori che ancora gravano sul sistema e, quindi, da non ripetere nonostante alcune pericolose e recenti tentazioni. «Se con la riforma Monti-Fornero si è poi passati a un’eccessiva rigidità, è altrettanto vero che tra il 1965 e il 1990 si è persa la correlazione tra contributi e prestazioni, adottando requisiti di enorme favore», spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel ricordare che ci vorranno diversi ancora diversi anni per ridurre queste anomalie, che tuttora appesantiscono il bilancio del welfare italiano. «Occorre considerare – puntualizza infatti il Professore – che, affinché il sistema resti in equilibrio, è essenziale un giusto rapporto tra periodi di vita lavorativa (e dunque anche di contribuzione) e durata del trattamento pensionistico, così da evitare durate eccessive che penalizzino le giovani generazioni, sulle cui spalle ricordiamo grava il pagamento effettivo delle pensioni attualmente vigenti e, più in generale, tutti i lavoratori che accedono al pensionamento a età regolari.

Basti pensare, come rileva il Rapporto, che nel settore privato l’età media alla decorrenza dei pensionati che percepiscono la rendita da 40 anni e più, ancora viventi, era di 41,8 anni (39,7 anni gli uomini e 42,3 le donne): quadro nel quale pesano molto le età giovanili della pensione di invalidità e di quella ai superstiti. Nel settore pubblico, l’età media è di 41,2 anni (39,3 gli uomini e 42,1 le donne). Giusto per fare un confronto, le età medie dei lavoratori andati in pensione nel 2020 erano rispettivamente di 61,9 per l’anzianità, 67,4 per la vecchiaia, 62,1 per i prepensionamenti, 54,8 per le invalidità e 77,4 per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato e di 61,3 (anzianità), 67,3 (vecchiaia), 61,8 (prepensionamenti), 53,5 (invalidità) e 74,3 (superstiti) con riferimento alle donne. «Anche volendo considerare l’aspettativa di vita, siamo ben oltre quel paletto dei 25 anni che dovrebbe rappresentare una buona mediazione tra periodo di lavoro e tempo di quiescenza: anzi, a oggi – aggiunge Brambilla – sono in pagamento tra pubblici e privati 5.752.933 prestazioni IVS che hanno già superato una durata di 20 anni, vale a dire il 34,1% del totale degli oltre 16 milioni di pensionati italiani».

Tra le categorie più longeve le donne, che fanno la parte del leone con il 79,7% del totale di prestazioni IVS in pagamento con durate da 40 e più anni e con il 64,3% sul totale per genere di quelle ancora vigenti dopo oltre 25 anni, ma anche pensioni di invalidità e superstiti che figurano invece tra le tipologie di prestazioni prevalenti. Da rimarcare poi che, al gennaio 2021, nel settore privato, risultavano ancora in essere circa 210mila pensioni dovute a prepensionamenti avvenuti anche con almeno 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti allora vigenti: numeri che evidenziano l’uso intensivo dei prepensionamenti fatto sino al 2002. Prepensionamenti che in Italia, a differenza di quanto accade in altri Paesi Europei, pesano sul bilancio pensionistico anziché essere considerati delle vere e proprie misure di “sostegno al reddito”. Analoga la situazione delle invalidità previdenziali (assegno di invalidità, pensione di invalidità, pensione di inabilità): all’1 gennaio 2021 ne risultavano in pagamento da più di 40 anni oltre 200.972, pari al 24,3% del totale delle invalidità. Le pensioni ai superstiti liquidate dall’INPS, dipendenti pubblici compresi, sono invece 4.274.326, di cui 183.786 con 40 e più anni di durata (il 4,3% del totale) e 819.182 con decorrenze superiori ai 25 anni (il 19,2% del totale).

«Un tempo prepensionamenti e trattamenti di invalidità venivano utilizzati, come oggi si rischia di impiegare APE sociale, precoci, Opzione Donna o gravosi, più come ammortizzatori sociali “mascherati” che come autentiche misure di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, di cui pure l’Italia avrebbe bisogno», spiega Brambilla precisando che le ultime riforme hanno se non altro avuto il chiaro pregio di riportare il sistema verso un maggior equilibrio. Equilibrio che però le continue riduzioni delle età di pensionamento a favore ora di questa ora di quella categoria di lavoratori rischiano di compromettere. «Spesso gli italiani si lamentano perché l’età pensionabile è (in alcuni casi anche molto nettamente) più elevata che in passato e aumenta ogni due anni. I motivi però ci sono – chiude il Professor Brambilla – e sono essenzialmente due: viviamo di più, ed è una bella notizia, e dobbiamo rispettare il patto intergenerazionale per garantire la tenuta del sistema, anche per i giovani con i cui contributi oggi si pagano pensioni e anticipazioni. Senza adeguamento alla speranza di vita, i rischi sono proprio quelli che emergono analizzando questa vasta schiera di prestazioni ancora in pagamento, seppur erogate molti anni fa: lavoratori mandati in quiescenza a età troppo giovani, baby pensioni come quelle del pubblico impiego, casi “limite” di prepensionamento, requisiti troppo permessivi per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità. Un monito per i fautori delle troppe anticipazioni».

 

Fonte: Il Punto. Pensioni e Lavoro

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