Fino a un mese fa la gran parte degli ucraini viveva una vita normale; oggi, più di 3,5 milioni hanno lasciato il paese, spesso separandosi dalla propria famiglia, e tra i rimasti, circa 6,5 milioni sono sfollati, senza una casa ma ancora all’interno di un paese in guerra. Molti civili sono diventati combattenti, centinaia di migliaia sono sotto assedio nelle città. Manca l’acqua, il cibo, l’elettricità, il riscaldamento, i mezzi per comunicare.
Tra le innumerevoli conseguenze di questa guerra – come per tutte le guerre – le condizioni traumatiche di paura e privazione che gli ucraini stanno vivendo avranno un profondo impatto sulla loro salute mentale, soprattutto in termini di depressione, ansia e disturbi da stress post traumatico, in parte già rilevabili: «Circa mezzo milione di rifugiati ucraini che hanno raggiunto la Polonia ha bisogno di supporto per disturbi di salute mentale e 30.000 di loro soffrono di una forma patologica severa» afferma Paloma Cuchi, rappresentante dell’OMS in Polonia. Lo psicologo ed epidemiologo Manuel Carballo, direttore esecutivo dell’International Center of Migration, Health and Development di Ginevra e consulente dell’OMS e del Centro europeo per il controllo delle malattie, sottolinea: «Vediamo le ferite, le bende e le ambulanze. Ma gli aspetti di salute mentale del diventare un combattente o un rifugiato sono meno visibili e forse più preoccupanti».
Già la situazione di base della salute mentale in Ucraina non era ideale: secondo un’indagine condotta nel 2005 nel programma dell’OMS per la salute mentale globale, l’Ucraina presentava una prevalenza di disturbi depressivi maggiore della media europea, e con l’inizio del conflitto nel 2014, i traumi della guerra in Crimea hanno intensificato tale prevalenza, rendendo l’Ucraina, secondo una stima dell’OMS pubblicata nel 2017, il paese europeo con la più alta percentuale di popolazione affetta da disturbi depressivi. Il conflitto divenuto endemico nella parte orientale del paese ha aumentato l’insorgenza di disturbi da stress post traumatico, la cui guarigione è particolarmente lenta e difficile quando i civili sopravvissuti rimangono a vivere nelle aree colpite, come molti cittadini dell’ucraina orientale. Nel 2020, prima dell’inizio della pandemia, l’Ucraina era stata selezionata come paese prioritario nell’Iniziativa Speciale per la Salute Mentale dell’OMS, con l’obiettivo di stimolare un rinnovamento dei servizi in questo ambito. Una delle sfide maggiori era la ridefinizione del significato culturale dei disturbi mentali nella popolazione ucraina. Durante il regime sovietico, infatti, la psichiatria veniva utilizzata come uno strumento di repressione: gli oppositori venivano stigmatizzati come affetti da disturbi mentali e rinchiusi per lungo tempo in ospedali psichiatrici. Le generazioni più anziane hanno sviluppato una conseguente sfiducia nell’istituzione psichiatrica. Ma anche nella popolazione generale, la vergogna e la paura di essere etichettati e discriminati hanno portato la maggior parte degli ucraini a mostrare una marcata riluttanza nella ricerca di supporto psicologico. Eppure questo sarà fondamentale soprattutto nella lunga convalescenza del dopoguerra, quando le ferite della psiche emergeranno in tutta la loro forza.
Cosa succede al cervello durante una guerra
In generale, vivere in una guerra significa essere sottoposti in maniera costante a una situazione di imminente minaccia alla sopravvivenza, in cui i circuiti nervosi della paura e dello stress sono cronicamente attivi. Il reclutamento di questi circuiti è una risposta adattativa e funzionale del cervello alle esperienze di pericolo, tuttavia una loro intensa e ricorrente attivazione può comportare delle modificazioni strutturali nell’architettura cerebrale fino sfociare, in alcuni casi, nella manifestazione di comportamenti maladattativi e psicopatologie. Il cervello infatti è plastico: le connessioni tra i neuroni, quindi le unità di base del suo funzionamento, si modificano e si adattano in seguito alle esperienze che viviamo, in modo da imparare dal passato per prevedere e gestire il futuro, e questo accade soprattutto quando le esperienze sono caratterizzate da un intenso valore biologico, come il pericolo. L’esposizione cronica poi non fa che aumentare la solidità di questi cambiamenti: più una situazione viene ripetuta, più l’architettura nervosa che la codifica, associando tra loro stimoli, emozioni e conseguenze, viene rafforzata, mentre le connessioni che non sono rilevanti si indeboliscono.
Da un punto di vista psicologico ogni individuo presenta modelli mentali specifici che gli permettono di gestire e comprendere la realtà. Questo processo è selettivo e parziale, ma garantisce comunque un senso di sicurezza e stabilità, permettendo la definizione di una certa visione del mondo che può così essere accettata. Quando si affronta un’esperienza traumatica come la guerra, ogni individuo si trova di fronte a un mondo che non ha più senso. I modelli mentali a sua disposizione non sono in grado di ripristinare sensazioni di sicurezza e stabilità, generando un persistente senso di allerta, paura e ansia, che nel tempo dà vita al trauma.
La strada neurobiologica verso il disturbo da stress post-traumatico (PTSD)
Una delle modificazioni struttural-funzionali più ricorrenti in seguito all’esposizione intensa o cronica a traumi è la perdita del controllo sul circuito di allerta e paura. Nella vita di tutti i giorni, la corteccia prefrontale esercita un controllo top-down (quindi secondo una gerarchia dall’alto verso il basso) sulle altre strutture del cervello: sede delle funzioni esecutive più evolute, come pianificazione e ragionamento logico, la PFC rielabora gli stimoli integrandoli nel contesto per produrre risposte comportamentali efficaci e adatte. Quando però il sistema sensoriale individua una minaccia, la corteccia prefrontale viene inibita per passare le redini al primitivo, ma efficace, circuito della paura. L’amigdala, struttura sottocorticale coinvolta nella codifica degli stimoli salienti, ovvero prioritari e “di valore”, diventa il principale coordinatore della risposta istintiva: una volta che riceve l’informazione sensoriale codificata come allarmante, blocca la PFC, attiva il sistema nervoso autonomo simpatico che stimola il rilascio di adrenalina, attiva l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), responsabile della circolazione del cortisolo, classicamente denominato l’ormone dello stress, e contemporaneamente attiva strutture cerebrali profonde (come il grigio periacqueduttale, PAG, e il locus coeruleus, LC), il tutto per montare la risposta fisiologica e comportamentale atta alla rimozione della minaccia: la celebre “attacco o fuga”.
Il rischio di una amigdala cronicamente iperattiva
L’elemento cruciale tuttavia è la capacità dell’amigdala di plasmarsi e adattarsi, “imparando” dalle esperienze pregresse. Nelle connessioni tra i suoi neuroni infatti si creano le memorie di paura che associano stimoli prima neutri, come un forte rumore o un luogo chiuso senza finestre, a significati di pericolo, come la minaccia di una bomba o l’esperienza potenzialmente letale della guerra. L’associazione, o condizionamento, che avviene nell’amigdala è naturalmente adattativo poiché rende l’individuo più responsivo a tali segnali, migliorando le sue probabilità di sopravvivenza. Tuttavia, quando il contesto cambia e il pericolo scompare la corteccia prefrontale torna in carica e la sua porzione mediale, in particolare (mPFC), ha il compito di tenere sotto controllo l’attivazione dell’amigdala, del sistema limbico e delle altre strutture sottocorticali coinvolte in paura e difesa, come il PAG. L’esposizione cronica ai traumi della guerra può alterare questo meccanismo di controllo, indebolendo le connessioni tra mPFC e amigdala, la quale a sua volta può diventare iperresponsiva e prendere il sopravvento anche in assenza di pericoli concreti, mantenendo l’individuo in una tensione difensiva esacerbata, spesso causa di insonnia e memorie intrusive. Un’amigdala iperattiva ci rende inclini a percepire più intensamente i pericoli o a interpretare negativamente stimoli una volta neutri e reagire emotivamente di conseguenza: ecco per esempio che vi è una tendenza a vedere rabbia o minaccia nelle espressioni del volto di un estraneo, poiché sempre pronti a individuare un pericolo latente. Il ridotto controllo della corteccia ci impedisce di sedare questa attivazione ed estinguere le memorie di paura createsi durante il trauma, oramai non più funzionali, che spingono ad evitare ogni stimolo associato al trauma. L’attivazione eccessiva o incontrollata del PAG inoltre è correlata con le sensazioni fisiologiche e psicologiche dell’attacco di panico, come l’urgenza di fuggire da un pericolo letale e imminente. La maggior parte di questi fenomeni, insieme ad altre caratteristiche, appaiono evidenti ed estremi nei soggetti che soffrono del disturbo da stress post traumatico (PTSD), una condizione psichiatrica tipica, anche se non frequente, dell’esposizione al trauma, correlata a una disfunzione del controllo corticale, della funzionalità dell’ippocampo e iperreattività dell’amigdala e di altri sistemi nervosi legati all’espressione di paura. Ma gli effetti del trauma possono anche prendere la direzione opposta.
La dissociazione traumatica
Quando un soggetto si trova di fronte ad un evento traumatico che percepisce come inevitabile (e insostenibile-incomprensibile per la mente) può entrare in gioco un processo estremo di difesa: la dissociazione, che protegge l’individuo e la sua psiche. La dissociazione può essere vista come una rete di sicurezza dalla realtà, come l’alter ego psicologico di un fenomeno adattativo che il cervello mette in atto come ultima risorsa. Quando il pericolo è inevitabile e il controllo è perso, così come le possibilità di fuga e salvezza, il cervello entra in uno stato di iporesponsività agli stimoli, sia esterni che interni: la corteccia prefrontale (mPFC) blocca le strutture di risposta alla minaccia; amigdala, sistema limbico, PAG vengono inibiti, così come la corteccia insulare, dove vi risiedono le rappresentazioni degli stimoli propriocettivi e il senso di appartenenza al proprio corpo. L’individuo entra in uno stato di inattivazione percettiva, motoria ed emotiva, spesso accompagnata da un senso di depersonalizzazione e dissociazione. Questa risposta può diventare maladattativa: soprattutto in casi di trauma ripetuto, l’eccesso nella regolazione dei sistemi emotivi da parte della corteccia prefrontale può ripresentarsi in modo acuto in associazione a determinati stimoli o cronicizzare nella vita quotidiana, motivo per cui gli individui possono sperimentare un appiattimento emotivo post-traumatico che impedisce anche alle emozioni positive di affiorare. I soggetti affetti da PTSD infatti possono suddividersi in due categorie principali in base alla presenza o meno di una componente dissociativa e vi sono numerosi disturbi della dissociazione che emergono in seguito ad un trauma infantile. Inoltre lo stato dissociativo lascia filtrare ricordi, emozioni, sensazioni, portando a quella che in psicologia viene definita coazione alla ripetizione. In altre parole, la mente presenta sempre la stessa scena in un loop infinito, cercando di trovare una spiegazione, di dare un senso a ciò che è stato vissuto o che continua a vivere.
Stress cronico da guerra e conseguenze neuroendocrine
Tra i circuiti neuroendocrini maggiormente influenzati dall’esposizione ripetuta ad eventi traumatici vi è l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), la cui cascata di attivazione porta alla produzione di cortisolo in risposta a stimoli stressogeni. Lo stress cronico è una situazione oramai frequente della vita quotidiana e le sue implicazioni su salute e psicopatogenesi sono state oggetto di numerosi studi, soprattutto in relazione agli effetti sulla disfunzione di quest’asse, che a sua volta ha diverse implicazioni su cervello, psiche e fisiologia. Nel contesto del trauma della guerra, la continua stimolazione dell’ipotalamo da parte dell’amigdala crea un rilascio eccessivo e sostenuto nel tempo di cortisolo, che, dato il suo effetto su glicemia e grassi, può per esempio portare all’insorgenza di diabete mellito di II grado o malattie cardiovascolari. Il ruolo del cortisolo infatti è quello di mobilitare le risorse energetiche del corpo per mantenere l’individuo in uno stato di allerta, sia con andamento ciclico quotidiano per regolare i ritmi di sonno e veglia, sia in situazioni di stress acuto, per innescare e mantenere la risposta di attacco o fuga. Un suo eccesso da rilascio continuativo però, oltre agli effetti metabolici, può risultare nella disregolazione dell’asse stessa e avere conseguenze neurotossiche sui neuroni dell’ippocampo, struttura cerebrale chiave per la codifica e il consolidamento delle memorie spaziali e dichiarative, e parte fondamentale del circuito nervoso per l’elaborazione delle informazioni contestuali. L’eccesso di cortisolo dunque può alterare le funzionalità dell’ippocampo, causando da un lato la degenerazione dell’albero dendritico dei suoi neuroni (i dendriti sono i prolungamenti del neurone che ricevono gli stimoli) e dall’altro inibendo la neurogenesi, ovvero la formazione di nuovi neuroni, nel giro dentato dell’ippocampo, l’unica zona in cui avviene questo processo in età adulta. La disfunzione dell’HPA inoltre è correlata con diverse condizioni psichiatriche: un’iporeattività è tipica del disturbo da stress post traumatico, mentre l’iperreattività correla frequentemente con la depressione.
Vivere in guerra per lunghi periodi, costantemente sotto minaccia, con i circuiti nervosi e l’asse endocrina HPA in uno stato di attivazione continua, porta il cervello ad adattarsi a questo nuovo stato di normalità, a creare nuove associazioni e impostare nuovi livelli di responsività ad un ambiente così estremo. Questa ricalibrazione può essere temporanea o duratura a seconda di numerosi fattori ma è particolarmente d’impatto quando il cervello si sta calibrando per la prima volta, nei bambini.
Le conseguenze neuropsicologiche sui bambini
I bambini sono particolarmente vulnerabili. Dalla nascita alla prima età adulta il cervello acquisisce informazioni ed esperienze dall’ambiente per affinare le sue funzionalità, selezionare le connessioni da tenere e rafforzare, e quali indebolire e rimuovere. In momento così delicato di rimodellamento come la prima infanzia, il cervello è estremamente sensibile agli stimoli che riceve e nonostante questo dia ai bambini incredibili capacità di resilienza e recupero, a volte gli effetti del trauma possono rimanere radicati e deviare il neurosviluppo, fino a catalizzare la futura emergenza di psicopatologie, che altrimenti sarebbero rimaste dormienti. Il trauma infantile aumenta la probabilità di molti problemi di salute mentale e fisica in età adulta come la depressione, PTSD, dolore cronico, il disturbo da ansia generalizzata, il disturbo d’ansia da separazione, i disordini dissociativi e l’abuso di alcol e sostanze stupefacenti.
Anche se non direttamente coinvolti nelle violenze della guerra, la perdita delle risorse di base, la separazione da un genitore e dalla casa, la riduzione o il cambiamento delle cure parentali dovute alla paura e al trauma dei genitori possono provocare nei bambini sensazioni di angoscia e trascuratezza che, se sostenute, possono causare disfunzioni nel sistema delle catecolammine (rilascio e circolazione di adrenalina, noradrenalina e dopamina) che alterano il normale sviluppo del cervello, e squilibri dell’asse HPA, a cui i bambini sono molto sensibili nei primi cinque anni di vita, aumentando le possibilità di insorgenza delle patologie sopracitate.
I genitori possono proteggere i loro figli dal trauma in una certa misura, ma lo spazio di azione è limitato. Nonostante l’amore e l’impegno, le cure parentali e i segnali espressivi di un genitore spaventato e sotto stress possono avere un impatto sui bambini. Il trauma può anche essere trasferito dai genitori ai loro figli attuali e futuri attraverso sottili ma ereditabili cambiamenti della struttura del genoma (modificazioni epigenetiche) che spesso riguardano un’alterazione nei sistemi di risposta e reazione agli eventi stressanti. In questo modo, la sofferenza può essere trasmessa per generazioni.
Ritrovare un significato
Nell’ambito psicologico, questi fattori traumatici e il conseguente sviluppo del PTSD o altre psicopatologie depressive o dissociative possono essere interpretati come sintomi derivanti dallo scontro di due mondi: il primo legato al periodo prebellico e il secondo relativo al presente, questa biunivocità è dannosa.
È bene specificare che comunque non tutti coloro che subiscono un trauma svilupperanno sindromi post-traumatiche. Le differenze genetiche individuali e il supporto ambientale, così come le esperienze personali passate e la vicinanza e la gravità di un trauma, sono tutti fattori che determinano chi è più colpito. Alcune persone si riprendono, e alcune ne escono più forti e più resistenti psicologicamente. Ma la tolleranza umana per le esperienze orribili è limitata. Per ripristinare una condizione di ordine psicofisico una soluzione può essere quella di:
- Dare un senso agli eventi vissuti, trovando risposte concrete e reali (cosa è successo, come è successo e perché è successo) e non forme di coping negative (come la dissociazione traumatica).
- Comprendere e imparare da questi eventi e metterli in relazione con i propri schemi mentali, per sviluppare un nuovo modello cognitivo ibrido basato sulla coesione dei due mondi
In questo modo, la ripetizione lascia spazio alla memoria, la memoria alla comprensione e all’apprendimento dal passato. Il trauma e la dissociazione sono così sostituiti dalla crescita post-traumatica.
Fonte: Scienza in Rete