Nei primi giorni della pandemia di COVID-19, l’urologo ed epidemiologo clinico Kari Tikkinen ha trovato la sua agenda piena di interventi chirurgici cancellati, quindi ha dovuto capire come poter passare il tempo. “Fai quello che ti sembra più utile”, gli ha consigliato il suo capo all’Università di Helsinki. Così Tikkinen si è concentrato sulla conduzione di studi clinici riguardanti terapie per COVID-19.
Fin dall’inizio dei trial, prima che il mondo venisse a conoscenza del long COVID, Tikkinen ha sentito la necessità di seguire i partecipanti per mesi dopo il loro recupero. Voleva monitorare gli effetti collaterali a lungo termine dei farmaci. “Molto presto è stato chiaro che non si trattava solo di sicurezza”, spiega.
Ora Tikkinen e una manciata di altri colleghi sperano di capirne di più sull’idea che i trattamenti somministrati durante la fase acuta di COVID-19 possano ridurre il rischio di avere sintomi mesi dopo quella fase. “È una necessità di salute urgente e pressante su cui occorre iniziare a focalizzarsi”, afferma Charlotte Summers, specialista di terapia intensiva dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito.
Sintomi debilitanti
La ricerca sul long COVID – che di solito è definito da sintomi di COVID-19 che durano per più di tre mesi – è rimasta indietro rispetto agli studi sulla fase acuta dell’infezione. Le persone che sperimentano il long COVID convivono con una vasta gamma di sintomi, da lievi a gravemente debilitanti. I ricercatori hanno proposto una varietà di cause per tale condizione, che vanno da serbatoi virali persistenti all’autoimmunità a piccoli coaguli di sangue. Molti scienziati pensano che la colpa sia di un mix di questi fattori. “Ci è voluto un po’ di tempo per intraprendere una qualsiasi ricerca seria sulle cause del long COVID”, sottolinea Danny Altmann, immunologo dell’Imperial College London. “È difficile mettere insieme il quadro generale.”
Finora, i vaccini sono stati il modo migliore per prevenire il long COVID. I vaccini per COVID-19 riducono infatti il rischio di infezione da SARS-CoV-2 e potrebbero diminuire il rischio di long COVID dopo un’infezione in qualcuno che è stato vaccinato.
Diversi studi hanno esaminato la questione: anche se hanno dato risultati contrastanti, la tendenza generale suggerisce che la vaccinazione potrebbe ridurre il rischio di long COVID di circa la metà tra coloro che si infettano dopo la vaccinazione. Per esempio, uno studio che non è stato ancora sottoposto a peer review ha scoperto che la vaccinazione ha ridotto di circa il 41 per cento le possibilità di sviluppare sintomi di long COVID in oltre 3000 partecipanti con doppia vaccinazione che si sono poi infettati con SARS-CoV-2.
Ma questo lascia ancora troppe persone a rischio di ammalarsi di long COVID, spiega Altmann. “La metà non è un risultato così buono”, afferma. “Pensavo e speravo che il long COVID sarebbe diventato un ricordo del passato.”
Trattamento precoce
Oltre alla vaccinazione, non è chiaro se qualche terapia esistente per COVID-19 abbia un effetto sul rischio di long COVID. In teoria, un farmaco che riduce la gravità della malattia potrebbe ridurre la gravità dei sintomi a lungo termine, sostiene Altmann. Ma il long COVID non è sempre associato a gravi malattie acute. “Ci sono molte persone distrutte dal long COVID che avevano avuto infezioni asintomatiche o quasi”, afferma. “È davvero difficile da affrontare.”
Tuttavia, alcuni studi prevedono di esaminare l’impatto sul long COVID del trattamento precoce con farmaci antivirali. Uno studio clinico chiamato PANORAMIC sta testando gli effetti dell’antivirale orale molnupiravir, sviluppato da Merck e da Ridgeback Biotherapeutics, sulla gravità di COVID-19. Anche se non è l’obiettivo primario dello studio, i ricercatori raccoglieranno dati dai partecipanti a tre e a sei mesi dopo il trattamento, determinando potenzialmente se il farmaco influenza il rischio di long COVID. Allo stesso modo, due studi clinici su Paxlovid, un antivirale sviluppato da Pfizer, includeranno un follow-up di sei mesi dei partecipanti.
Questi farmaci antivirali sono tipicamente usati per trattare persone con sintomi di COVID relativamente lievi. Tikkinen e i suoi colleghi sperano di saperne di più sull’impatto a lungo termine dei trattamenti ricevuti da coloro che sono stati ricoverati per COVID-19. Il suo gruppo sta seguendo i soggetti inclusi nel braccio afferente all’Università di Helsinki dello studio per il trattamento di COVID-19, chiamato SOLIDARITY, dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Nelle prossime settimane, Tikkinen spera di avere i risultati di uno studio di follow-up di un anno sui partecipanti ricoverati per COVID-19 e trattati con il farmaco antivirale remdesivir.
Il suo gruppo seguirà anche i partecipanti ad altri due bracci dello studio SOLIDARITY, uno che ha testato un farmaco immunosoppressore chiamato infliximab e un altro che ha testato imatinib, un farmaco che potrebbe aiutare a ridurre l’infiammazione dei vasi sanguigni.
Ma, avverte Tikkinen, nessuno di questi studi aveva abbastanza partecipanti da dare risposte chiare sul long COVID. Il suo gruppo è dovuto ricorrere a misure straordinarie per contattare i partecipanti mesi dopo il loro trattamento con remdesivir e per incoraggiarli a compilare un questionario sui loro sintomi. Il gruppo ha coinvolto esperti di grafica per rendere i questionari più facili da compilare, ha fatto tradurre le domande in dieci lingue e si è offerto di consegnare a mano i documenti a casa dei partecipanti. Il risultato è stato un tasso di risposta del 95 per cento, che Tikkinen afferma essere insolitamente alto per questi studi a lungo termine. Ma poiché lo studio originale includeva solo circa 350 persone, è probabilmente ancora troppo piccolo per fornire una conclusione definitiva.
Studi su piccola scala
I ricercatori sperano di scoprire se il rischio di long COVID si possa ridurre con più trattamenti. In Regno Unito, un grande studio chiamato HEAL-COVID sta testando due farmaci che hanno come obiettivo il sistema cardiovascolare in persone che sono state ricoverate per COVID-19. Il primo, chiamato apixaban, è un anti-coagulante. L’altro, l’atorvastatina, è un farmaco che abbassa il colesterolo e si pensa possa ridurre l’infiammazione nei vasi sanguigni.
Lo studio verificherà se uno dei due trattamenti riduce le ospedalizzazioni e i decessi un anno dopo la dimissione dall’ospedale. Quasi un terzo delle persone dimesse dopo il trattamento per COVID-19 è ricoverato nuovamente entro sei mesi, e il 12 per cento muore entro sei mesi dalla dimissione iniziale. “Abbiamo esaminato quello che più plausibilmente aveva causato il decesso dopo l’ospedalizzazione, probabilmente si trattava di effetti cardiopolmonari”, afferma Summers, che dirige lo studio.
All’Università di Chicago, lo pneumologo e medico di terapia intensiva Ayodeji Adegunsoye ha osservato un possibile aumento nell’accumulo di tessuto cicatriziale, chiamato fibrosi, nei polmoni ben dopo l’infezione acuta in persone che sono state ricoverate per COVID-19 e alle quali è stato necessario dare un supplemento di ossigeno. Ora Adegunsoye sta testando un farmaco chiamato sirolimus – un immunosoppressore che a volte è dato a chi riceve un trapianto d’organo – in queste persone, nella speranza che impedisca la migrazione delle cellule che promuovono la fibrosi nei polmoni.
Per loro natura, gli studi sul long COVID richiedono pazienza: una definizione comunemente accettata di long COVID è la persistenza di alcuni sintomi per più di 12 settimane dopo l’infezione acuta. Altmann è ottimista sul fatto che quest’anno emergeranno progressi, ma mette in guardia dal prestare attenzione ai piccoli studi che potrebbero non produrre risultati statisticamente significativi. “La pressione è tanta”, conclude. “C’è un bisogno incredibilmente urgente e disperato, e tutti noi sentiamo quest’ansia”.
Fonte: Le Scienze