C’è qualcosa nell’aria. Di dannoso
Articolo del 02 Giugno 2022
La plastica, molto utilizzata perché versatile e poco costosa costituisce, come si sa, un notevole problema per l’ambiente. Ma numerosi, anche se meno noti, sono gli effetti negativi che le sue micro e nano particelle hanno sulla salute umana. A parlarcene sono Sandra Baldacci, Amalia Gastaldelli e Sara Maio dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr.
Tutti usiamo oggetti di plastica; la produzione e l’utilizzo di questo materiale risale a molto tempo fa, addirittura al XIX secolo, quando tra il 1861 e il 1862 il britannico Alexander Parks brevetta il primo materiale semisintetico. Sono però gli anni ’60 del XX secolo che vedono il suo definitivo affermarsi, oltre che nella vita quotidiana, anche nei settori del design, della moda e dell’arte. Indubbiamente, la plastica ha per molti versi semplificato la nostra vita, ha infatti costi inferiori rispetto ad altri materiali quali il legno o il ferro, è leggera e versatile, grazie alla sua polifunzionalità vi si può ricorrere in molti comparti da quello tecnologico a quello agroalimentare e del confezionamento. Un suo utilizzo smodato porta con sé però, come tutti sappiamo, ricadute pesanti sull’ambiente. Meno noti e considerati sono invece i danni che provoca sulla salute umana quando si frammenta, raggiungendo dimensioni estremamente piccole.
“Nell’ambiente, la plastica si frammenta in microplastiche, che hanno dimensioni che vanno da 0.1 a 5.000 micrometri (µm) e in nano plastiche, che misurano da 0.001 a 0.1 µm. Queste particelle sono presenti nei nostri ecosistemi a seguito di un processo di costante degradazione che ne facilita la dispersione e l’assorbimento da parte di organismi diversi, uomo compreso, con conseguente sviluppo di effetti quali variazioni del microbiota e della produzione di enzimi digestivi, disturbi vascolari, riproduttivi e neuro-comportamentali, fino ad arrivare a processi infiammatori a livello dell’apparato respiratorio”, spiega Sara Maio dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Consiglio nazionale delle ricerche. “Anche i plastificanti, principalmente ftalati o bisfenoli, utilizzati ampiamente nell’industria della plastica per aumentarne l’elasticità, sono tossici per l’uomo perché hanno proprietà di interferenti endocrini, sono in grado cioè di interferire con il sistema endocrino modulando e/o sconvolgendo le funzioni metaboliche e ormonali responsabili del mantenimento dell’omeostasi, della riproduzione, dello sviluppo e/o del comportamento”.
Diversi sono i modi in cui entriamo in contatto con microplastiche e plastificanti. “Non solo attraverso l’ingestione ma anche per inalazione”, chiarisce Sandra Baldacci del Cnr-Ifc. “Per esempio, mangiando una porzione di cozze si ingeriscono meno fibre sintetiche di quante se ne inalano attraverso la polvere domestica durante lo stesso pasto. È stato inoltre dimostrato che le microplastiche possono essere trasportate dall’aria al mare, e uno studio ha recentemente mostrato l’emissione dalla superficie del mare all’aria. Per questo non deve stupire che si trovino tracce di ftalati legati alle PM2.5 ed enormi quantità di micro- e nanoplastiche sulla neve delle Alpi svizzere”.
Va detto però che i dati a disposizione su questo argomento sono ancora scarsi. “L’impossibilità di effettuare una corretta valutazione del rischio per la salute umana è legata soprattutto alla mancanza di metodi per la rilevazione e la quantificazione delle microplastiche – soprattutto di quelle con dimensioni inferiori a 150 micrometri – negli alimenti, ma anche nell’ambiente e nel corpo umano”, chiarisce Amalia Gastaldelli del Cnr-Ifc, istituto tra i promotori dello studio Life-Persuaded, che ha valutato i livelli di esposizione in Italia in 900 coppie madre-bambino (età compresa tra i 4 e i 14 anni)”. Dall’attività di biomonitoraggio è emerso che tutti i bambini e le loro madri sono esposti agli ftalati (100% dei reclutati) e al bisfenolo A (Bpa) (77% dei reclutati). Per quanto riguarda l’area geografica, l’esposizione a Bpa è maggiore al Nord d’Italia nelle madri, mentre per i figli è analogo nelle tre aree; per gli ftalati, l’esposizione è maggiore al Sud sia per le madri che per i figli. Per entrambi, inoltre, l’esposizione a Bpa è maggiore nelle aree urbane rispetto a quelle rurali. I polimeri, in generale, sono chimicamente inerti e, dunque, considerati non tossici. Tuttavia, le ridotte dimensioni e l’elevata superficie conferiscono alle microplastiche, e ancora di più alle nanoplastiche, maggiore reattività rispetto ai composti da cui originano, rendendole potenzialmente dannose per gli organismi a seconda del tipo di esposizione e della suscettibilità. Il potenziale danno derivante da effetti piccoli ma incrementali rimane a tutt’oggi sconosciuto. Le microplastiche più piccole di 20 µm aumentano il rischio di sviluppare malattie endocrine e cardiometaboliche come obesità, steatosi epatica non alcolica, diabete, ipertensione, aterosclerosi, malattia coronarica, malattia renale cronica e disfunzione tiroidea. Più lunga è l’esposizione (ad esempio prenatale o durante l’infanzia) maggiore è il rischio.
Studi recenti hanno evidenziato poi i danni che le microparticelle di plastica possono causare ai polmoni, come illustra Maio: “Esponendo cellule di tessuto polmonare al polistirene, largamente usato negli articoli monouso grazie alla sua robustezza, sono stati osservati effetti negativi in termini di inibizione della proliferazione delle cellule e cambiamenti nella loro forma. Ciò conferma che l’esposizione umana all’inquinamento da microplastica ha conseguenze significative e potenziali danni per l’uomo”.
È dunque estremamente importante richiamare l’attenzione su questo rischio per la salute, ricorda in conclusione Baldacci: “Occorre identificare e fornire raccomandazioni utili ai cittadini per portarli a ridurre l’esposizione a queste sostanze attraverso opportuni e semplici cambiamenti dello stile di vita, come realizzato nell’ambito del progetto Life- Persuaded.
Fonte: Almanacco della Scienza