Nel primo studio etichettato Fiore 1 si era analizzato come risponde il cervello a una relazione medico paziente ottimale, mentre in questo secondo studio Fiore 2 si è evidenziato cosa succede a livello neurale quando la comunicazione medico-paziente non funziona.
Gli autori hanno misurato gli effetti a livello cerebrale di una cattiva comunicazione nel rapporto terapeutico.
Una buona e positiva relazione terapeutica può essere messa in relazione a quello che viene chiamato effetto placebo, al contrario una cattiva relazione terapeutica a quello che viene chiamato effetto nocebo.
In tutte le civiltà primitive si è data una grande importanza ai rituali terapeutici, pensiamo ai riti sciamanici, alle trance generate da danze e movimenti ripetuti, ebbene il potere di guarigione di queste tecniche è stato fino a poco tempo fa interpretato dalla scienza come suggestione o effetto placebo.
Ma cerchiamo di chiarire la differenza tra effetto farmacologico ed effetto placebo.
Le neuroscienze ci permettono oggi di capire come reagisce il cervello nei due casi. Studiando con i metodi di neuroimaging quello che succede nel cervello dei pazienti si scopre una cosa sorprendente: credere in una terapia e l’aspettarsi da essa un beneficio, attiva gli stessi meccanismi biochimici messi in azione dai farmaci.
Il solo aspettarsi un miglioramento clinico sommato all’interazione col proprio terapeuta accende delle regioni cerebrali, le stesse attivate dai farmaci.
L’effetto placebo è semplicemente un modello che serve per farci capire come le parole e gli atteggiamenti possano avere un effetto positivo e riescano in qualche modo a modulare determinati sintomi, altresì i sistemi endogeni nel cervello vengono attivati in determinate circostanze.
Abbiamo diverse vie biochimiche recettoriali che influiscono sull’attività neuronale in determinate regioni cerebrali le quali possono essere modificate sia dai farmaci sia dal placebo con lo stesso identico meccanismo.
Tra queste ne prendiamo a modello tre:
1. il sistema oppioide con i recettori MU a cui si lega la morfina e gli endocannobinoidi;
2. la via della cicloossigenasi enzima che è il bersaglio dei farmaci antinfiammatori non steroidei (esempio l’aspirina);
3. la via dei recettori della dopamina che entrano in gioco nel paziente parkinsoniano. Un placebo somministrato a pazienti col Morbo di Parkinson aumenta la dopamina in una zona del cervello e riduce l’attività di alcuni neuroni nello stesso modo come si ottiene con farmaci (levodopa). I recettori della dopamina nella malattia di Parkinson sono responsabili dei disordini del movimento. I farmaci dopaminergici si legano ai recettori della dopamina così come le suggestioni verbali positive migliorano la performance e provocano un aumento della dopamina extracellulare del 200%, un aumento enorme che corrisponde a una dose piena di anfetamina.
La durata di effetto di un placebo è però più corto di quello farmacologico. Altrettanto si verifica nel dolore che viene ridotto con l’attivazione della via 1 e della via 2 come avviene con i rispettivi farmaci.
Cosa è quindi un placebo?
Si può definire come un farmaco finto + il contesto psicosociale intorno al paziente formato da parole, odore del farmaco, dall’essere toccato da apparecchiature e così via, tutti stimoli sensoriali e sociali che dicono al paziente che è in uno stato di terapia e quindi di aspettativa ed è questa che gioca un ruolo fondamentale.
Tutti questi rituali attivano le stesse vie biochimiche dei farmaci che somministriamo nella vita quotidiana come i recettori CB1 che sono attivati dai canabinoidi, i recettori mu che sono attivati dalla morfina, l’enzima cicloossigenasi che è inibito dall’aspirina e dagli antinfiammatori non steroidei. Le suggestioni verbali positive mettono il soggetto in uno stato di aspettativa.
Parole e farmaci hanno quindi le stesse vie di attivazione. Per secoli si è utilizzata la parola e il rituale come mezzo di guarigione attivando inconsapevolmente le stesse vie neurologiche e biochimiche che negli ultimi cento anni si sono cominciate ad attivare anche con i farmaci chimici.
Da qui l’importanza di unire la parola ed il rituale alla somministrazione del farmaco al fine di provocare una guarigione o un miglioramento di un sintomo.
Nel caso del dolore che è insieme al Parkinson il più studiato dalle neuroscienze abbiamo, attraverso il cosiddetto effetto placebo, un risultato soggettivo ovvero la reale diminuzione del dolore e un risultato oggettivo cioè la riduzione delle aree cerebrali interessate che vengono deattivate e inibite.
Il sistema di controllo discendente del dolore è attivato dalle parole del medico che alimenta le aspettative positive, questo controllo discendente può utilizzare il sistema Mu oppioide utilizzato anche dai narcotici o può utilizzare il sistema dei recettori CB1 dei cannabinoidi e degli endocannabinoidi.
Anche la via della cicloossigenasi responsabile della sintesi delle prostaglandine utilizzata dagli antinfiammatori può essere utilizzata dal placebo. La stimolazione verbale positiva – sarà meno attiva dell’aspirina ma avrà anch’essa una azione sulle prostagnlandine.
Dalla sperimentazione di neuroimaging si è constatato che la durata di effetto di un placebo è più corto di quello farmacologico.
Come risultato di questi studi derivano almeno due importanti implicazioni cliniche:
1. la relazione medico-paziente, o più in generale terapeuta-paziente, è cruciale per l’efficacia di una terapia, quindi questa interazione unica dove il paziente crede, spera e ha fiducia va potenziata al massimo;
2. occorrono dei protocolli che abbinino farmaci e placebo al fine di ridurre l’assunzione di alcuni farmaci tossici.
In molte situazioni, quali il dolore e il morbo di Parkinson, il miglioramento è clinico, cioè i sintomi si riducono realmente. Tuttavia è bene precisare che per esempio nel m. di Parkinson la degenerazione neuronale non viene arrestata dal placebo, il quale agisce solo sui sintomi.
Analogamente, mentre il dolore da cancro può essere ridotto da un trattamento placebo, il tumore in sé continua la sua progressione.
Effetto nocebo
Dobbiamo ora evidenziare l’effetto opposto a quello placebo ovvero l’effetto nocebo di cui allo studio attuale Fiore 2 del gruppo Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l’università degli Studi di Padova e il Padova Neuroscience Center (Pnc), cioè di come parole negative ed inadeguate del medico possano provocare dolore a livello cerebrale e far peggiorare una patologia.
Andrea Camilleri ebbe a dire “le parole sono pietre, possono essere pallottole. Bisogna saper pesare il peso delle parole”.
La parola è una forma di energia vibrante che entra al pari di una fucilata nello schema corporeo di chi abbiamo di fronte.
I pazienti lo sperimentano talvolta sulla loro pelle: le parole del medico possono essere frecce aguzze in grado di ferire. E in quest’ultimo caso fanno male, generano dolore fisico.
La prova è nel cervello come dimostra lo studio Fiore2.
In generale, potremo dire che l’effetto nocebo riconosce cause contrarie a quelle che determinano l’effetto placebo; quindi dipende soprattutto da scarsa fiducia del paziente nei confronti della cura che gli viene prescritta (la quale dipende in larga misura dalla scarsa fiducia in colui che gliela prescrive), condizionamento (legato a precedenti esperienze o alla lettura del bugiardino dei farmaci).
In pratica si dà lo stesso placebo, ma con aspettative negative e questo genera sulle vie del dolore un effetto iperalgesico.
Da qui emerge ancora una volta la necessità che tra medico e pazienti si instauri un rapporto di reciproca conoscenza, fiducia e collaborazione, con pieno rispetto delle esigenze di entrambi.
La diagnosi negativa gioca un ruolo fondamentale: un dolore dopo una diagnosi negativa può aumentare (iperanalgesia da nocebo).
Se diciamo ad un soggetto il tuo dolore aumenterà si crea un’ansia anticipatoria che attiva i lobi prefrontali con rilascio di una molecola la CCK (colecistochinina), un neuropeptideche che facilità la percezione nocicettiva e di conseguenza il dolore aumenta.
Per concludere è necessario istruire le nuove generazioni mediche a rivalutare il rapporto medico paziente, l’uso della parola e l’uso della semeiotica (come ascoltazione, e palpazione) tutti elementi spesso tralasciati in favore di analisi cliniche ed indagini strumentali che, se pur necessarie, svuotano il rapporto empatico che deve crearsi tra medico e paziente per il successo della terapia.
L’essere umano non è una macchina che va dal medico per fare un tagliando attaccato a una centralina che ne registra gli eventuali guasti, è qualcosa di molto di più, è un essere spirituale con suo mondo psichico che va rispettato e con cui necessariamente il medico ha il dovere di confrontarsi.
Fonte: Rewriters