Le emissioni di cinque paesi hanno mandato in fumo l’11 per cento del pil globale tra il 1990 e il 2014. Sono Stati Uniti, Cina, Russia, India e Brasile.
Una delle grosse delusioni che ha lasciato in eredità la Cop26, la Conferenza sul clima di Glasgow, è il capitolo sul loss and damage. L’idea era quella di creare un meccanismo per cui i paesi ricchi, storicamente responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra e quindi dei cambiamenti climatici, potessero risarcire i paesi poveri che ne subiscono le conseguenze. I colloqui sono stati serrati, ma non sono serviti: nel testo del Patto di Glasgow sul clima non ce n’è traccia. A qualche mese di distanza, due studi scientifici arrivano addirittura a conteggiarli, questi danni, facendo il nome dei paesi che hanno le maggiori responsabilità. E, viceversa, calcolando le spese – talvolta abnormi – che ricadono sulle spalle dei più deboli. Ricordandoci, ancora una volta, quanto la crisi climatica sia anche una questione di giustizia sociale.
Le emissioni degli Usa hanno inflitto 1.900 miliardi di danni agli altri paesi
I ricercatori dell’università di Dartmouth, nel New Hampshire, sono stati i primi a tracciare un collegamento diretto tra le emissioni cumulative di gas serra di ciascuna nazione e l’andamento del prodotto interno lordo (pil) in 143 paesi. Questo perché, come spiega il professor Justin Mankin, “le emissioni di gas serra generate in un paese causano il riscaldamento di un altro paese, e tale riscaldamento può deprimere la crescita economica”.
I risultati, descritti in un articolo pubblicato su Climatic change, sono netti. In cima alla lista dei responsabili ci sono gli Stati Uniti che, da soli, hanno inflitto 1.910 miliardi di dollari di danni economici agli altri paesi nel periodo compreso tra il 1990 e il 2014. Segue – a breve distanza – la Cina, a quota 1.830 miliardi. La classifica prosegue con Russia (986 miliardi), India (809 miliardi) e Brasile (528 miliardi). Sommando questi cinque paesi si arriva a sfondare il tetto dei 6mila miliardi di dollari di perdite cumulative, sempre tra il 1990 e il 2014. Cioè circa l’11 per cento del pil globale del periodo.
Da quattro anni, in Madagascar, non piove abbastanza
I paesi poveri dovranno sacrificare la sanità per difendersi dalla crisi climatica
Un altro studio, condotto dalla ong Tearfund, osserva invece la crisi climatica da un altro punto di vista. Quello dei paesi africani che stanno facendo il possibile per mettere in salvo il territorio e la popolazione. Nello specifico, il report ha preso in esame i costi dei piani nazionali di adattamento elaborati da Camerun, Capo Verde, Ciad, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Madagascar, Mali, Mauritania e Sudan. E li ha messi a confronto con i fondi stanziati per la sanità pubblica. Scoprendo che, nella totalità dei casi, i primi superano i secondi. Arrivando a situazioni limite come quella dell’Eritrea, dove i costi per l’adattamento ammontano al 22,7 per cento del pil e quelli per la sanità appena al 4,46 per cento. O quella della Mauritania, col 13,4 per cento contro il 3,3 per cento.
Cosa significa tutto questo? Che “i paesi africani devono spendere soldi che non hanno per adattarsi a una crisi che non hanno provocato”, si legge nel report. “Senza un maggiore sostegno, ciò probabilmente avverrà a discapito di servizi pubblici cruciali, come la sanità”. Questo sostegno era stato promesso più di dieci anni fa, nel 2009. Attraverso il fondo verde per il clima, le nazioni ricche si erano impegnate a stanziare a favore di quelle povere 100 miliardi di dollari all’anno, tra il 2020 e il 2025. Ma questo impegno non è mai stato pienamente rispettato.
Fonte: LIFEGATE