Quanto dovremo aspettare per le prime varietà di frumento geneticamente editate per resistere alla siccità e alleggerire l’impronta ambientale? Lo abbiamo chiesto ai genetisti riuniti a Bologna per discutere il futuro della pasta.
La crisi climatica minaccia sempre più le spighe che sfamano il mondo. Se pensate che si tratti di un’esagerazione, ripensateci. Per ogni grado di temperatura in più gli scienziati del grano si aspettano il 6-7 per cento di produzione in meno. Un calo a cui non possiamo rassegnarci, perché il frumento è il cereale più coltivato al mondo e fornisce a due miliardi e mezzo di persone il 20 per cento dei carboidrati e delle proteine, con punte fino all’80 per cento in alcuni paesi africani.
Per vincere la sfida del pane (che si fa con il frumento tenero) e della pasta (che si fa con il frumento duro) non basterà un adeguamento delle pratiche agronomiche, serviranno anche tutte le conoscenze che la genomica potrà fornire e tutta la versatilità delle nuove tecniche di breeding, in particolare dell’editing genetico. Quanto siamo vicini al traguardo?
Lo abbiamo chiesto ad alcuni genetisti di punta al convegno From seed to pasta organizzato presso la sede della Regione Emilia Romagna da Roberto Tuberosa del Dipartimento di scienze e tecnologie agro-alimentari (DISTAL)-Università di Bologna, in collaborazione con i più importanti centri di ricerca internazionali sul grano. Dalla Wheat Initiative lanciata nel 2011 dai paesi del G20 fino a CIMMYT e ICARDA, che fanno parte del consorzio che è stato il motore della Rivoluzione verde nel secolo scorso (CGIAR).
Eduard Akhunov ha origini russe ma lavora alla Kansas State University per decifrare la complessità del genoma del grano e ha firmato importanti lavori sull’evoluzione dai progenitori selvatici. La premessa è che gran parte degli studi svolti nel mondo riguardano il grano usato per il pane (che ha sei copie di ogni cromosoma) e non il grano da pasta (che di copie ne ha quattro ma include molta più diversità genetica utile per il breeding). “Per fortuna tante informazioni sull’uno possono essere trasferite anche all’altro, quasi lettera per lettera, grazie ai sequenziamenti che consentono di confrontare i due terzi dei geni che il duro condivide con il tenero.”
Tra i risultati più eclatanti dell’ultimo anno, per esempio, figura lo sviluppo in Cina di un grano tenero resistente a una grave malattia fungina, senza penalizzazioni nella resa. Secondo Akhunov è molto probabile che si possa disattivare lo stesso gene della suscettibilità anche nel grano duro, ottenendo lo stesso risultato.
“Più genomi abbiamo, più campioni sequenziamo e confrontiamo, meglio è”, commenta lo scienziato. Un bel passo avanti in questa direzione è il progetto PRIN sul pangenoma del frumento duro, di cui Tuberosa è coordinatore, presentato al convegno di Bologna da Luigi Cattivelli del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi . Sia il DISTAL che il CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) si erano già distinti in passato con il primo sequenziamento del grano duro. Ora riuniranno le sequenze di ben 18 varietà di grano da pasta, con il contributo dell’Università del Saskatchewan, per svelare similitudini e differenze in un genoma complessivo, un pangenoma appunto.
Secondo Akhunov è l’inizio di un lavoro che dovrà allargarsi in modo strategico: solo includendo nel campione varietà provenienti da tante regioni del mondo sarà possibile caratterizzare l’intero spettro della biodiversità e catturare le varianti geniche rare (aplotipi) di valore. Quanto ci vorrà per arrivare a sfruttare le conoscenze genomiche editando tratti utili nel grano? Il pensiero va subito alla sostenibilità nell’era della crisi climatica e alla capacità di tollerare la scarsità idrica.
“Le tecnologie di editing genomico si stanno sviluppando a gran velocità”, afferma Akhunov. Migliorano continuamente per facilità d’uso, precisione e anche per il numero di interventi che si possono eseguire. “La capacità di editare centinaia di geni in poco tempo ci permetterà di valutare molti geni candidati e vedere quali effetti hanno sul tratto di interesse, in questo caso la resistenza alla siccità.” Per arrivare in campo, secondo lo scienziato, potrebbero volerci tre, forse cinque anni.
Non tutti sono così ottimisti: gli adattamenti agli stress ambientali, come la siccità e le alte temperature, sono tratti complessi, che coinvolgono molti geni, perciò non sono il frutto più facile da cogliere per i genetisti. Lo stesso vale per un altro ambito traguardo: ottenere piante che usino in modo più efficiente l’azoto e quindi richiedano meno fertilizzanti. Oltre alle difficoltà scientifiche vanno considerati anche gli ostacoli regolatori, sottolinea l’australiano Peter Langridge, che è a capo del comitato scientifico della Wheat Initiative nata per coordinare la ricerca sul grano su scala globale.
Il caso più semplice è quello dei knock-out, ovvero gli interventi in cui ci si limita a inattivare un elemento, per esempio il gene della suscettibilità a una malattia come l’oidio. In un numero crescente di paesi le piante così editate non sono considerate OGM, anche se l’Unione Europea deve ancora decidere se allinearsi alla tendenza. Interventi di questo tipo sono già stati usati per sviluppare grano a basso contenuto di glutine per i celiaci e pane a basso rischio di acrilammide, una sostanza potenzialmente cancerogena che si genera con la cottura. Il knock-out, inoltre, è un approccio indispensabile per scoprire la funzione di geni chiave, come quello che regola la profondità della radice nei cereali su cui si è concentrato Silvio Salvi del DISTAL in un lavoro pubblicato recentemente sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
I problemi aumentano quando è necessario cambiare un gene, anziché eseguire un semplice taglio per spegnerlo, perché in questo caso il quadro regolatorio si fa più complesso. “Ci sono progressi interessanti per quanto riguarda le modificazioni per migliorare il contenuto nutritivo del grano, per esempio elevare i livelli di zinco sarebbe importante per la salute”, ci dice Langridge.
Il bello è che ora possiamo guardare i genomi nella loro dimensione dinamica. Tendiamo a immaginarceli stabili e costanti, come le pagine di un libro stampato. Invece sono testi vivi, che cambiano continuamente, incorporando informazioni anche da specie diverse. Questo dinamismo consente di incamminarsi su un altro sentiero, quello della ri-domesticazione.
“Conosciamo meglio le basi genetiche della domesticazione rispetto a quelle della resa o della resistenza alla siccità. Perciò vale la pena di provare a correggere i problemi della domesticazione nei parenti selvatici del frumento e arricchire in questo modo la biodiversità del germoplasma a cui attingere per sviluppare nuove varietà”, spiega il genetista australiano.
Fonte: Le Scienze