Secondo l’International Osteoporosis Foundation, le fratture da fragilità – 568.000 nuovi casi nel 2019 in Italia – sono uno dei fattori che impedisce di invecchiare in buona salute, compromettendo l’indipendenza e la qualità di vita di chi soffre di osteoporosi: in Italia circa 4.400.000 persone, per lo più donne. L’osteoporosi è infatti la causa principale delle fratture da fragilità, un’emergenza per cui – solo nel 2019 – l’Italia ha speso 9,5 miliardi di euro, di cui 5,44 miliardi per i costi diretti delle fratture da fragilità, 3,75 miliardi per quelli della disabilità a lungo termine e 259 milioni per gli interventi farmacologici. Per lungo tempo non ci sono state novità terapeutiche in questo campo, ma oggi le cose sono cambiate. Ecco cinque cose da sapere emerse nel corso di un incontro con Maria Luisa Brandi, presidente dell’Osservatorio Frattura da Fragilità e membro del Board di International Osteoporosis Foundation, Iacopo Chiodini, professore Associato di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano, Tiziana Nicoletti, responsabile Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e rari Cittadinanzattiva, Umberto Tarantino, professore Ordinario delle Malattie dell’Apparato Locomotore presso l’Università Tor Vergata di Roma, Maurizio Rossini, professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università degli Studi di Verona.
1. L’Italia è stata il primo paese al mondo ad avere delle Linee Guida
Siamo stati il primo Paese al mondo a redigere le Linee Guida sulle Fratture da Fragilità, emanate dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2021: un documento dove sono messi nero su bianco l’esigenza di una diagnosi differenziale, di procedere alla stratificazione del rischio di ri-frattura quando il paziente si presenta con la prima frattura e di garantire continuità assistenziale. È un documento al quale ora si rifanno tutti gli altri Paesi. A portare avanti il lavoro per la redazione delle Linee Guida è stata la coalizione FRAME®, un’alleanza aperta a tutte le forze sociali e del mondo clinico, finalizzata al coinvolgimento delle Istituzioni e della classe politica per giungere alla formulazione di una proposta strategica condivisa circa le fratture da fragilità.
2. Esiste un PDTA, ma deve essere messo in pratica
Dal lavoro di FRAME® è nato anche il PDTA, piano diagnostico terapeutico assistenziale, per le fratture di fragilità. L’osteoporosi deve essere considerata una patologia cronica e come tale deve essere trattata, con percorsi dedicati, un approccio multidisciplinare e una totale presa in carico del paziente. Ciò implica che il paziente dovrebbe essere seguito e monitorato dal momento della prima frattura in poi, effettuando una diagnosi differenziale del paziente fragile, individuando un percorso dedicato e scegliendo la migliore terapia disponibile. Spesso si tratta di persone anziane, sole, che non sanno come orientarsi. È, quindi, necessaria una struttura territoriale in grado di farsene carico. Il PDTA redatto è piuttosto semplice ma non trova applicazione uniforme sul territorio: ci sono Regioni che lo hanno adottato altre no, ma anche dove la Regione non ha agito è possibile trovare delle singole strutture che lo mettono in pratica.
3. Le ri-fratture si possono prevenire
Oggi i clinici hanno a disposizione trattamenti farmacologici efficaci. Per le persone che hanno subito una frattura da fragilità il rischio di subirne una seconda è 5 volte più elevato rispetto a chi non è incorso in questo evento. Nonostante l’adozione di una terapia adeguata sia in grado di ridurre questo rischio fino al 65-70%, nella realtà il problema del sotto-trattamento è preoccupante.
4. Oggi c’è un nuovo farmaco, dopo 15 anni dall’ultima novità
Romosozumab, prima novità nel campo dell’osteoporosi dopo 15 anni, è l’unica molecola ad oggi disponibile nella pratica clinica con un duplice effetto: da un lato stimola l’attività degli osteoblasti, quindi la formazione dell’osso, dall’altro riduce l’attività delle cellule che rimuovono il tessuto osseo (osteoclasti). Funzioni che fino ad oggi venivano svolte da classi farmacologiche distinte: gli anabolici e gli anti-riassorbitivi. Per questo, quella con romosozumab viene definita una terapia “osteo-regolatrice”, perché va a correggere lo sbilanciamento tipico dell’osteoporosi tra l’attività degli osteoblasti e quella degli osteoclasti.
5. Cambia il modo di curare i pazienti ad alto rischio
Romosozumab è indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura. In queste pazienti, per ottimizzare i risultati, è indicato un trattamento sequenziale, una strategia terapeutica che prevede, ad esempio, 1 anno con romosozumab, seguito da un trattamento con un inibitore delle attività degli osteoclasti, come i difosfonati o denosumab. In questo modo è possibile mantenere o incrementare il guadagno ottenuto: con l’approccio sequenziale, ad esempio, romosozumab-denosumab in due anni è possibile ottenere risultati che attualmente richiederebbero sette anni.
Fonte: Galileo