Greenwishing, la natura non può compensare i nostri ritardi nella mitigazione climatica
Articolo del 28 Dicembre 2022
Riusciremo a stabilizzare il riscaldamento medio globale a 1,5°C? La missione è ormai quasi impossibile, ma non per questo bisogna demordere, perché ogni frazione di grado in più comporterà conseguenze nefaste per noi e l’ambiente. C’è però chi questo obiettivo se l’è già messo dietro alle spalle, convinto che le emissioni che non siamo riusciti a evitare potranno essere compensate con tecnologie quali la cattura e il sequestro del carbonio, con l’uso delle biomasse (BECCS), oppure con le cosiddette “soluzioni basate sulla natura” (forestazione, ripristino degli ecosistemi, ecc.), volte ad aumentare l’assorbimento di carbonio da parte dei suoli. Ma si tratta di una pericolosa illusione: le tecnologie “a emissioni negative”, infatti, sono ancora in fase di studio, e se anche si rivelassero efficaci necessiterebbero di grandi quantità di energia per farle funzionare. Mentre la ri-naturalizzazione dei suoli entra in competizione con altre necessità, come la sicurezza alimentare, e non può garantire l’assorbimento del carbonio al di sopra di una certa quota oltre quella già assicurata dai suoli. L’illusione di compensare le emissioni che non siamo capaci di ridurre la si potrebbe chiamare Greenwishing, una variante del più sfacciato Greenwashing. Ecco come ce lo racconta il ricercatore Alessandro Gimona.
Alla COP27 i governi non hanno fatto alcun progresso reale sulla riduzione delle emissioni, pur ribadendo che 1,5°C di riscaldamento dovrebbe essere una linea rossa. Non è chiaro come si possano conciliare questi due fatti, ma si può ipotizzare che le compensazioni e la rimozione di CO2 dall’atmosfera avranno un ruolo di primo piano, per lo meno nelle intenzioni. Quasi contemporaneamente sono stati pubblicati due importanti rapporti che sottolineano il valore delle compensazioni di carbonio, ma anche il rischio di fare un eccessivo affidamento su di esse per raggiungere l’obiettivo Net Zero entro il 2050.
Il rapporto Land Gap evidenzia l’irrealistica quantità di terreno che sarebbe necessaria per rispettare gli impegni di decarbonizzazione presi dagli stati con i Nationally Determined Contributions (NDC), mentre il rapporto Integrity Matters delle Nazioni Unite mette in luce il pericolo che il mercato volontario del carbonio sia un’arma spuntata a causa del greenwashing.
Considerando i due rapporti insieme – e ciò che gli scienziati dell’uso del suolo conoscono da anni – è possibile prevedere una situazione in cui le promesse spesso fatte in buona fede non saranno mantenute. Questo eccesso di fiducia può essere definito “greenwishing” (in contrapposizione al “greenwashing”, che implica un inganno deliberato) ed è probabile che svolga un ruolo crescente, date le difficoltà politiche nel ridurre le emissioni effettive.
Il problema si estende a tutte le forme di rimozione dell’anidride carbonica (Carbon Dioxide Removal, CDR) e anche a un obiettivo Net Zero basato su una data piuttosto che su un budget di carbonio, e rischia di portare a un sostanziale superamento del budget “sicuro” di 1,5°C. Lo spiego di seguito.
Variazione della temperatura dell’aria alla superficie terrestre, rispetto alla media del XX secolo (Science on a sphere)
I modelli dell’IPCC stimano che, per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C è necessario uno sforzo erculeo, ovvero dimezzare le emissioni ogni dieci anni, per rimanere all’interno del budget di carbonio “sicuro” compatibile con tale obiettivo. Ciò richiederebbe una completa trasformazione dell’economia entro 30 anni. Ma questo, come dimostrano i modelli, probabilmente non sarebbe ancora sufficiente e, se si vuole limitare il superamento (overshoot), sarebbe necessario catturare e stoccare fino a 300 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2050. In altre parole, se vogliamo evitare di superare alcuni punti critici, non solo dobbiamo raggiungere lo zero netto, ma anche, dopo il 2050, riassorbire abbastanza CO2 dall’atmosfera per stabilizzare la temperatura a + 1,5°C.
Le Nazioni Unite hanno recentemente sottolineato che non esiste un percorso credibile per raggiungere 1,5°C, a causa dell’insufficiente impegno politico, ma gli scienziati sottolineano che è ancora fisicamente possibile se si compiono sforzi sufficienti e che le preoccupazioni relative alla volontà politica non devono essere interpretate come un invito ad abbandonare questo limite.
Teoria e pratica, tuttavia, divergono. I modelli sono essenzialmente esperimenti di pensiero e suggeriscono ciò che dovrebbe essere fatto, in teoria, per rimanere al di sotto di 1,5°C. Tuttavia, mentre le narrazioni degli scenari descrivono le ipotetiche condizioni sociali e politiche in cui si potrebbero ottenere le riduzioni, non possono dirci come raggiungere queste condizioni nella pratica. Questo, ovviamente, dipende dal processo politico, che finora non ha dato risultati sufficienti e non ha dato segnali positivi alla COP27.
Raggiungere lo Zero Netto in modo sicuro
Per raggiungere lo Zero Netto in modo sicuro ci sono diversi problemi da risolvere. In primo luogo, impegnarsi a raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050, nonostante le buone intenzioni, potrebbe portare comunque a emissioni globali troppo elevate per rimanere al di sotto di 1,5°C. Questo perché, a livello nazionale, la traiettoria seguita per ridurre le emissioni a zero implica l’assunzione (di solito arbitraria) di una quota del budget globale di carbonio considerata sicura, cioè compatibile con gli obiettivi che ci si è posti a livello globale.
Per esempio, la riduzione lineare e quella esponenziale comportano emissioni totali molto diverse per un determinato paese entro il 2050. Anche se tutti i paesi raggiungessero lo Zero Netto entro il 2050, i percorsi seguiti sono importanti per garantire che le scelte aggregate a livello globale di tutti i paesi non portino al superamento di quel budget. Per inciso, il Regno Unito si è attribuito una quota che è di due volte superiore a quella che gli spetta, e probabilmente questa non è un’eccezione.
Nonostante il raggiungimento dello Zero Netto, il superamento globale del budget di carbonio “sicuro” potrebbe essere sostanziale e, come tutti sappiamo, causerebbe un pericoloso riscaldamento supplementare.
Rimuovere il carbonio dall’atmosfera non è così semplice
La trasformazione della società non è un compito facile, quindi i politici e i manager delle aziende potrebbero essere tentati di voler riassorbire dall’atmosfera emissioni ancora maggiori di quelle già molto elevate postulate dall’IPCC negli scenari e nei modelli che trattano un superamento temporaneo compatibile con 1,5°C.
Coltivazione idroponica
Ci si aspetta che compensazioni di vario tipo, basate sulla rimozione del biossido di carbonio (CDR) dall’aria, possano salvare la situazione. Queste aspettative generano una confusione pericolosa tra riduzioni puramente teoriche nel futuro e riduzioni effettive nel più breve tempo possibile.
Contare sul CDR, per esempio attraverso le Tecnologie a emissioni negative (Negative Emissions Technologies, NETs), consente di sostituire emissioni negative a emissioni effettivamente evitate, mentre un modo più sensato di procedere sarebbe quello di fissare obiettivi separati per entrambi.
Dato il ruolo che queste tecnologie dovrebbero avere nel limitare la concentrazione atmosferica di CO2, una domanda cruciale è: quanto è fattibile l’uso delle NETs per raggiungere la stabilizzazione della temperatura nella pratica?
Al momento, non esistono tecnologie su larga scala pronte a essere impiegate per catturare e stoccare diversi miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Esse richiederebbero politiche solide che mettano in atto strumenti economici per garantire una cattura di CO2 potenzialmente molto costosa, inoltre la loro fattibilità tecnica, sociale, politica e istituzionale su scala globale è ancora molto incerta.
Ecco perché il rischio di una loro (errata) interpretazione come una sorta di alternativa alla riduzione delle emissioni da parte di una parte del settore privato, con la promessa di compensare grandi quantità di emissioni future, ha preoccupato molti osservatori (tra cui il Comitato per il cambiamento climatico del Regno Unito che ha avvertito che l’acquisto di crediti di carbonio non dovrebbe essere «usato come un sostituto per la riduzione diretta delle emissioni aziendali»).
Tralasciando il fatto che altri gas serra non sono perfettamente sostituibili alla CO2, la questione della cattura della CO2 è centrale. In assenza di tagli effettivi molto rapidi, le Tecnologie a emissioni negative rischiano di diventare uno strumento di procrastinazione a discapito di un rapido abbandono delle fonti fossili. Il risultato sarà probabilmente un debito di carbonio che non potrà essere ripagato, o che sarà ripagato troppo tardi per evitare di superare i punti critici.
Una panoramica delle tecnologie a emissioni negative
Parlerò principalmente delle perplessità relative alle tecnologie a emissioni negative basate sull’uso suolo, poiché l’uso del suolo è il mio campo di specializzazione, ma, molto brevemente, esistono preoccupazioni anche per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS), la cattura diretta dell’aria (DAC) e la produzione di biochar. Finora i risultati della cattura e dello stoccaggio del carbonio (CCS) sono stati scarsi. Per esempio, la quantità di CO2 catturata dalla CCS tra il 1996 e il 2020 è pari a circa lo 0,03% delle emissioni globali nello stesso periodo. Pertanto, i seri dubbi sul potenziale della CCS su scala planetaria appaiono giustificati.
La cattura diretta dell’aria (DAC), per essere carbon negative, richiede un’enorme quantità di energia rinnovabile (o nucleare) peraltro non ancora disponibile. Per esempio, la quantità di energia necessaria per mitigare solo il 20% delle emissioni attuali equivale all’incirca all’intera produzione globale di elettricità. Sarebbero quindi necessarie enormi quantità di energia sia per la cattura sia per la costruzione e il funzionamento dell’intera infrastruttura legata al ciclo di vita, rendendo la fattibilità pratica del DAC discutibile, soprattutto a causa dei costi: il rapporto tra i futuri costi di capitale del DAC e i prezzi del carbonio dovrebbe diminuire in modo molto sostanziale per renderlo economicamente conveniente.
Infine, il biochar, che viene aggiunto al suolo, sembra avere un ruolo potenzialmente utile ma relativamente piccolo, con la necessità di aumentare di oltre 63 volte l’attuale capacità di produzione di carbone per ottenere una riduzione atmosferica di 0,1 parti per milione. Al momento, quindi, queste tecnologie hanno una capacità e una fattibilità economica limitate e potrebbero non superare abbastanza presto gli ostacoli necessari per scalare il loro potenziale. Il vantaggio, tuttavia, è che la rimozione è permanente, a differenza dei metodi basati sulla natura.
Metodi di riduzione del carbonio basati sulle piante e il suolo
Secondo il Rapporto sul divario di emissioni dell’UNEP del 2022, la maggior parte dei paesi del G20 non esclude l’uso di compensazioni (vedi tabella 3.4 a pag 24 dell’Emissions Gap Report 2022) per raggiungere l’obiettivo net zero. Tuttavia, le compensazioni basate sul metodi naturali su scala molto ampia sono problematiche. La cattura di CO2 dall’atmosfera può essere effettuata con metodi basati sulla natura, sia con le piante (forestazione, ripristino degli ecosistemi, uso della biomassa), sia immagazzinando il carbonio nel suolo. Quest’ultimo spesso necessita di attività fotosintetiche per catturare il carbonio in primo luogo, ma sarebbe anche possibile ripristinare i suoli degradati su grandi aree utilizzando silicati e altre tecniche. Anche questo metodi hanno limiti non banali in termini di scalabilità.
Alla COP21 è stata espressa l’aspirazione di aumentare le scorte globali di materia organica del suolo del 4 per 1.000 all’anno. Le nostre ricerche e quelle di molti altri scienziati dimostrano che questo obiettivo è molto ambizioso in molte aree del mondo.
In generale, bisogna ricordare che le emissioni globali di CO2 equivalente sono di circa 52 miliardi di tonnellate all’anno (e in aumento) ed essere consapevoli dei possibili ordini di grandezza della mitigazione ottenibile, tenendo anche presente che i metodi basati sulle piante e sul suolo non sono permanenti, a causa di vari tipi di degrado e disturbo.
Le barriere all’uso massivo di queste soluzioni sono in parte biofisiche e in parte sociali ed economiche. I limiti fisici dei metodi basati sulle piante sono suggeriti dall’attuale dimensione globale del serbatoio di assorbimento del carbonio terrestre (che è di circa 3,6 miliardi di tonnellate all’anno) e dalla disponibilità di terreno. Per catturare almeno 300 tonnellate aggiuntive – come proposto dall’IPCC – potrebbe essere necessario almeno raddoppiare tale capacità di stoccaggio da parte del suolo, una sfida a dir poco impegnativa, anche ignorando i danni che il riscaldamento può causare agli ecosistemi.
Come mostra una revisione tecnica basata su una notevole quantità di dati, esistono vincoli significativi all’aumento del sequestro globale di carbonio nella misura necessaria a bilanciare le emissioni globali. Ciò è dovuto a ragioni fisiologiche, alla quantità di superficie necessaria, alla permanenza del carbonio e alla diminuzione dell’albedo (cioè della quantità di energia solare riflessa nello spazio) che potrebbero in parte contrastare l’effetto del sequestro di CO2 dall’atmosfera. «Per aumentare la fotosintesi dell’ecosistema – concludono gli autori – servirebbero agire su più fronti: (a) la lunghezza della stagione di crescita sostituendo le piante perenni con quelle annuali; (b) l’indice di superficie fogliare aumentando il bilancio idrico e (c) la capacità fotosintetica trattenendo l’azoto. Realizzare una qualsiasi di queste attività su scale spaziali sufficientemente ampie rimarrà una sfida complicata».
Energia da biomassa con cattura del carbonio (BECCS)
Il cambiamento di destinazione d’uso del suolo che sarebbe necessario per implementare l’energia da biomassa con cattura del carbonio (BECCS) è molto grande e i suoi compromessi sono probabilmente socialmente inaccettabili in molte situazioni.
Per esempio, Smith et al. esaminando il potenziale di varie reti, stimano che l’implementazione del BECCS potrebbe produrre 3,3 miliardi di tonnellate di carbonio equivalente/anno di emissioni negative e richiederebbe una superficie di circa 380-700 milioni di ettari nel 2100 (per fare un confronto, si tratta di una superficie pari all’incirca a quella dell’intero subcontinente indiano – escluso il Pakistan – e alle dimensioni dell’Australia). Una maggiore mitigazione basata su BECCS renderebbe la competizione con la produzione alimentare e la biodiversità ancora più forte. In un clima geopolitico e fisico che minaccia la sicurezza alimentare, molti paesi potrebbero non essere in grado di permettersi questo impiego dei suoli. Considerazioni simili vengono espresse in un rapporto dell’Accademia europea delle scienze. A questo fa eco anche un documento dell’Imperial College che esamina i limiti e i compromessi con la qualità e la quantità dell’acqua, l’impoverimento del suolo, la potenziale deforestazione indotta e conclude che «i responsabili politici dovrebbero essere scettici riguardo a un futuro che sia esclusivamente o fortemente dipendente dal BECCS, e invece prepararsi e implementare opzioni di mitigazione alternative il prima possibile».
Il rapporto congiunto IPCC-IPBES del 2021 stima che il potenziale di mitigazione sostenibile del BECCS sia in realtà non superiore a 1-2,5 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno (le attuali emissioni annue della sola CO2 sono di circa 38 miliardi di tonnellate e in crescita). In generale, va notato che qualsiasi politica che richieda ampi cambiamenti nell’uso del suolo su “terre marginali” nei paesi meno sviluppati, rischia di colpire gravemente i piccoli agricoltori – che producono un terzo del cibo mondiale – e le popolazioni indigene, e potrebbe espropriarli delle loro terre, minacciando così i loro mezzi di sostentamento e la sicurezza alimentare. Pertanto, anche per queste stime, senza un’analisi approfondita a livello nazionale, è difficile valutare l’accettabilità dei grandi cambiamenti di uso del suolo indotti dal BECCS, anche se è possibile che le forze del mercato prevalgano in alcuni casi sulla sostenibilità sociale. Da tutte queste evidenze è ragionevole concludere che il ruolo dei BECCS è altamente speculativo, conclusioni che appaiono rafforzate in un clima geopolitico in cui le preoccupazioni per la sicurezza alimentare sono reali per molti paesi.
I metodi basati sulla natura non sono soluzioni permanenti
In questo contesto, le soluzioni basate sulla natura (NbS), cioè quelle basate sul ripristino degli ecosistemi, appaiono più attraenti. Non c’è dubbio che il ripristino di quasi tutti gli ecosistemi e la prevenzione della deforestazione comportino molteplici benefici, come lo stoccaggio del carbonio, la biodiversità, l’attenuazione delle inondazioni e molti altri. Il ripristino ha anche l’ulteriore vantaggio di ridurre l’erosione e il degrado del suolo, che attualmente aggiunge circa 5 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno a livello globale alle emissioni dovute alla perdita di carbonio dal suolo.
La deforestazione ha un impatto negativo sullo stoccaggio della CO2
Tuttavia anche in questo caso c’è il rischio di sovrastimare, in buona fede, ciò che le soluzioni basate sulla natura possono fare per il clima. Facciamo qualche esempio. Nel Regno unito, il ripristino delle torbiere degradate eviterebbe l’equivalente di circa il 4% delle emissioni nazionali (meno se si considera l’impronta globale del Regno unito). Le stime del contributo potenziale del rimboschimento alla mitigazione dell’attuale impronta di carbonio globale del Regno unito variano, ma si aggirano intorno all’1% e, come dimostra la nostra ricerca, intorno al 10% per la Scozia. A livello globale, il contributo potenziale è più alto, ma comunque di molto inferiore alle emissioni, anche prima di tenere conto del fallimento di molti progetti di rimboschimento e dell’aumento dei rischi di mortalità legati al clima.
Una ricerca di Griscom et al. (2018) stima che sarebbe teoricamente possibile utilizzare “soluzioni climatiche naturali” per sequestrare circa 24 miliardi di tonellate di CO2 all’anno, salvaguardando la produzione di cibo, fibre e habitat per la diversità biologica. Seddon et al. (2020), in una revisione approfondita sul tema, rivedono al ribasso tali stime, portandole a circa 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, su cui concordano altri studi e l’IPCC.
Un altro studio, invece, che cerca di tenere conto della reale fattibilità, è molto più conservativo, stimando un potenziale mediano di circa 1,3 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno tra il 2020 e il 2100.
Le aree forestali generano un assorbimento netto di carbonio.
Le politiche e gli schemi di compensazione per arrestare la perdita di area forestale lorda genererebbero inoltre un assorbimento netto di carbonio nel 2030 fino a un miliardo di tonnellate di CO2 all’anno.
Tuttavia, nessuno di questi studi tiene conto del previsto indebolimento del serbatoio di carbonio delle foreste che si verificherà se la temperatura globale aumenterà di circa 2°C. Ciò significa che – con l’attuale traiettoria di riscaldamento – in pochi decenni vaste aree forestali potrebbero trasformarsi in fonti di carbonio, invertendo la “compensazione” che hanno prodotto negli anni precedenti e perdendo così qualsiasi potenziale di riassorbimento su cui potrebbe contare una strategia di superamento temporaneo.
Inoltre, spesso viene ignorata la riduzione dell’albedo: il rimboschimento delle zone aride, spesso auspicato negli studi globali, avrebbe probabilmente uno scarso effetto netto sul riscaldamento climatico, nonostante l’accumulo di carbonio.
Porsi come obiettivo la compensazione, attraverso questi metodi naturali, di 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno comporta una quantità impressionante di attività diverse e coordinate in tutto il mondo e un lavoro intenso con le comunità locali. Pertanto, sebbene vengano giustamente proposti standard elevati, è probabile che essi limitino la quantità di terreno disponibile per le soluzioni basate sulla natura perché non è sempre possibile applicare questi standard e risolvere reali conflitti
Inoltre, il ripristino degli ecosistemi su larga scala richiederebbe cambio di passo notevole rispetto alle tendenze attualmente osservate, che comporterebbe, tra l’altro, cambiamenti sostanziali nella domanda di merciland-based (per esempio olio di palma, soia, carne bovina) che hanno causato la distruzione di molti degli ecosistemi che sarebbero da ripristinare, e probabilmente quindi anche un cambiamento sostanziale nelle diete globali. Difficilmente le soluzioni basate sulla natura possono quindi essere adottate su ampia scala se non fanno parte di una più generale trasformazione della società e dell’economia, e se non si avvia un processo parallelo di contrasto della crisi globale della biodiversità. Basta infatti esaminare la letteratura sui motivi per cui la maggior parte degli Obiettivi di Aichi è fallita per comprendere gli ostacoli ancora esistenti di natura sociale, politica ed economica, come mostrato anche da una nostra analisi. La COP15 delle Nazioni unite sulla biodiversità, dal 7 al 19 dicembre a Montreal, è un occasione per ribadire che è vitale porteggere e restaurare ecosistemi e biodiversità usando un approccio sistemico, ma purtroppo non possiamo chiedere a tali ecosistemi di risolvere anche il problema delle enormi emissioni umane. Al contrario, senza una stabilizzazione della temperatura globale, tramite la riduzione massiccia dell’uso di combustibili fossili, molti ecosistemi si degraderanno notevolmente esacerbando il problema, a cominciare dalla foresta amazzonica, che in alcune sue parti sta già diventando una sorgente e non un pozzo di carbonio.
La domanda del mercato volontario del carbonio: una visione top-down
Sembra insomma più realistico, anche se forse eccessivamente al ribasso, l’obiettivo di 1,3 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno di quello di 10 miliardi di tonnellate, e più vicino alle dimensioni attuali del serbatoio di carbonio terrestre. Ciononostante, il mercato volontario del carbonio sembra scommettere più del dovuto anche sulle soluzioni basata sulla natura. Per esempio, l’Africa Carbon Markets Initiative sostiene di voler produrre 1,5 miliardi di crediti (cioè 1,5 miliardi di tonnellate di CO2) all’anno entro il 2050, utilizzando una serie di approcci. Si tratta di una cifra addirittura superiore a una delle stime del contributo globale delle soluzioni basate sulla natura menzionata in precedenza, e che va valutata con attenzione, soprattutto in un continente in cui nei prossimi decenni dovranno essere affrontate molteplici sfide, come la sicurezza alimentare, la crisi della biodiversità, la siccità, le inondazioni e i conflitti.
Il carbonio e relativi crediti non sono un bene che può essere prodotto a piacimento per soddisfare le richieste del mercato. Il pianeta ha dei limiti fisici e sociali e quindi, se la maggior parte delle aziende si impegnasse a ridurre sostanzialmente le emissioni attraverso le compensazioni, molte finirebbero inevitabilmente per deludere gli investitori, intenzionalmente o meno. L’integrità quindi si applica all’intero mercato, non solo ai singoli operatori. Questo è vero anche ignorando la non permanenza del carbonio immagazzinato nelle foreste o in altri ecosistemi, che sono vulnerabili agli incendi, alle tempeste, alle inondazioni, ecc. e probabilmente lo diventeranno sempre di più man mano che gli eventi estremi diventeranno più frequenti.
Da questo punto di vista, il rapporto Integrity Matters delle Nazioni unite fornisce principi utili, fra cui spicca proprio la permanenza delle soluzioni adottate. «Un credito di carbonio di alta qualità dovrebbe, come minimo, soddisfare i criteri di addizionalità (cioè l’attività di mitigazione non sarebbe avvenuta senza l’incentivo creato dai proventi del credito di carbonio) e di permanenza.»
Il rapporto 2022 dell’UNEP sul divario delle emissioni fornisce un panorama delle soluzioni che portano a una forte riduzione delle emissioni effettive.
Un tipping point, esempio di un piccolo cambiamento che ha un grande effetto (Climate Science).
Per concludere, mentre l’arresto della deforestazione e il ripristino degli ecosistemi sono obiettivi molto importanti, e le compensazioni hanno certamente un ruolo da svolgere, è anche importante rendersi conto che, data l’enormità delle emissioni globali, c’è una quantità limitata di terreni in grado di fornire compensazioni e, molto probabilmente, una capacità piuttosto limitata di catturare il carbonio con altri mezzi. Ecco perché la mancanza di progressi alla COP27 sul fronte della mitigazione delle emissioni è deludente: stiamo ancora “pungendo il drago del clima”.
1,5°C è un limite, non un obiettivo: ogni decimo di grado conta e un cedimento sarebbe pericoloso. Purtroppo, non ci sono scorciatoie e, alla fine, dipende da quanto saranno decisive l’azione della società e la leadership politica nel prossimo decennio: senza una rapidissima decarbonizzazione della produzione di energia e una trasformazione di tutti i settori dell’economia, è probabile che ci si incammini a occhi chiusi verso un clima ostile e oltre i punti di non ritorno.
Fonte: Scienza in Rete