Il cervello e il ritmo, un’accoppiata che svela i nostri legami con i Neanderthal e apre nuove prospettive nella lotta al Parkinson.
Che cosa succede nel cervello quando ascoltiamo una canzone? Che sia il Festival di Sanremo, un brano jazz o una sinfonia, in gioco c’è sempre un’esperienza complessa, che attiva aree differenti e innumerevoli percorsi neurali.
Entrano in azione non solo le aree implicate nella percezione uditiva, ma quelle legate al movimento, al linguaggio, alla memoria e, fondamentale, anche i circuiti cerebrali dell’emozione. La musica, infatti, modula gli stati emotivi. Una canzone che ci è familiare o una che ci piace in modo particolare, per esempio, stimolano il nucleo accumbens, vale a dire il circuito dopaminergico del piacere, generando endorfine e oppioidi e dandoci una sensazione fisica di piacere che migliora l’umore.
Ma perché è istintivo muovere il corpo, battere un piede, ondeggiare con le spalle o tamburellare le dita quando si ascolta un brano musicale? La musica induce il movimento perché è armonia ma è anche ritmo. Spiega Alice Mado Proverbio, professoressa di psicobiologia all’Università Milano-Bicocca nel libro “Percezione e creazione musicale. Fondamenti biologici e basi emotive”, pubblicato da Zanichelli, che “il ritmo udito è in grado di stimolare direttamente il cervelletto, i gangli della base e la corteccia motoria, stimolando quindi il movimento”.
Il ritmo, d’altra parte, è una caratteristica essenziale della musica. “I brani musicali – sottolinea Mado Proverbio – tipicamente sono organizzati secondo ritmi che mutano ogni tanto – quando cambia il tempo, appunto, per esempio prima adagio e poi allegro – ma che si mantengono stabili per un certo periodo”. Ed è proprio il ritmo che ci permette di coordinare e di sincronizzare i nostri movimenti alla musica che stiamo ascoltando.
E così il ritmo – la regolarità dei suoni che compongono una sequenza musicale – potrebbe rivelarsi una delle chiavi per il trattamento delle persone con Parkinson: lo illustra la neuroscienziata Michela Matteoli nel saggio “Il talento del cervello. 10 lezioni facili di neuroscienze” (Sonzogno). O, altrimenti detto, è proprio in virtù della sua componente ritmica che la musica viene utilizzata nei programmi di riabilitazione. “I pazienti – spiega Matteoli – possono, per esempio, usare una sequenza ritmica forte per avviare e cronometrare i propri movimenti. E, di solito, così facendo, ottengono miglioramenti in termini di velocità, cadenza e lunghezza del passo”.
Il ritmo musicale contribuisce, quindi, a liberare le persone con Parkinson dall’immobilità, da quei movimenti meccanici e “di legno”, come li descrive Oliver Sacks in “Risvegli” (Adelphi). Il neurologo britannico, infatti, considerava la musica il più potente farmaco non chimico.
Forse, allora, non è un caso che la musica abbia da sempre interessato la nostra specie, fin dagli albori, e anche i nostri “cugini” della preistoria. Si ritiene, per esempio, come illustra Alice Mado Proverbio in “Neuroscienze cognitive della musica” (Zanichelli) che i Neanderthal cantassero prima ancora di essere in grado di parlare e creassero strumenti a fiato con le ossa degli animali, come il celebre flauto ritrovato a Divje Babe, in Slovenia, e oggi esposto al Museo nazionale di Lubiana.
E allora, come cantano Paola e Chiara, “tutto quello che ci serve è in un battito… ballare, ancora ballare”.
Fonte: La Stampa