“Per parlare correttamente di carne sintetica prima di tutto dovremo cominciare a usare le parole giuste e parlare di carne coltivata”, esordisce così Luciano Conti, che con Stefano Biressi – rispettivamente docente di biologia cellulare e di biologia molecolare all’Università di Trento – sta lavorando sul processo di produzione della carne colturale grazie ai finanziamenti di BrunoCell, unica start-up italiana che si dedica alla cultured meat. Nello studio di come si possa produrre fibra muscolare animale in laboratorio, infatti, di sintetico non c’è nulla. Il processo si sviluppa a partire da una biopsia effettuata sull’animale; da questo tessuto poi si isolano le cellule staminali, o si riprogrammano fino a farle ritornare pluripotenti, per poi amplificarne il numero all’interno di bioreattori.
Per entrambi i ricercatori si tratta di un campo di studi relativamente nuovo, a cui applicare le conoscenze maturate in anni di ricerche di base sulle cellule staminali con lo scopo di comprendere meglio i meccanismi patologici nell’essere umano. Per capirci, Biressi ha studiato le cellule staminali muscolari in modelli di distrofia muscolare, mentre Conti si è occupato fra le altre cose di cellule staminali neurali nelle malattie del cervello.
Ma che si tratti di una possibile applicazione di medicina rigenerativa o di carne coltivata, il processo di proliferazione cellulare è lo stesso: è necessario capire come meglio far crescere una piccola quantità di cellule così che abbiano le caratteristiche desiderate. “Nel caso della carne noi ci occupiamo principalmente dell’espansione delle cellule, della capacità cioè di indurre divisioni per un lungo termine, di aumentarne l’efficienza della conversione in fibre muscolari in modo da riuscire a strutturare il prodotto dando la consistenza dei diversi tagli di carne”, dice Conti. “Ci sono gruppi di ricerca, in Italia e nel mondo, che si occupano invece di altri aspetti come quello della produzione del grasso, che deve essere combinato al meglio con le fibre, degli aromi o dei nutrienti da aggiungere, delle matrici dove far crescere le cellule per dare una consistenza che sia il più vicino possibile a quella della carne che siamo abituati a mangiare, e così via. Siamo solo all’inizio, c’è ancora molto da fare per rendere la carne coltivata un prodotto per il mercato.”
Polpette, fois gras o fettine
Il primo hamburger di carne coltivata è ormai passato alla storia: era il 2013 quando Mark Post, professore di fisiologia vascolare all’Università di Maastricht, presentò la prima prova di concetto. Dal prezzo esorbitante – è di circa 250.000 euro la stima dei costi sostenuti per ottenerla – la polpetta non aveva una consistenza e una palatabilità all’altezza dei concorrenti provenienti da carne allevata. Da allora molto è cambiato e oggi Post ha fondato un’azienda – Mosa Meat – che è fra le poche al mondo a produrre carne coltivata. Il problema dei costi rimane importante: la voce che pesa di più è quella dei fattori di crescita usati nei terreni di coltura delle cellule, necessari per rimpiazzare il siero bovino usato nei primi esperimenti ma molto costoso e poco etico, considerando la carne coltivata come prodotto che non comporta sofferenza per gli animali. “Qui si inseriscono le ricerche, come le nostre, che cercano di traslare dagli ambiti terapeutici le tecnologie per migliorare l’amplificazione delle cellule”, spiega Biressi.
Oggi, comunque, i costi di produzione si sono abbassati molto e le aziende che producono carne coltivata sono convinte che nei prossimi anni riusciranno anche a venderla: oltre a Mosa Meat ci sono Upside Foods, una start-up californiana che ha da poco ricevuto il prima via libera dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti per la sua carne di pollo coltivata, e le israeliane Aleph Farms e SuperMeat. Quest’ultima vende le sue polpette di pollo in un ristorante a Tel Aviv dove si può mangiare guardando i bioreattori dove le cellule vengono coltivate, e nel 2022 ha siglato un accordo con Migros, azienda della grande distribuzione svizzera, con l’idea di arrivare nei supermercati entro il 2025. Anche a Singapore la carne coltivata è approvata per la vendita già dal 2020 e si può assaporare un piatto di polpette per qualche decina di euro. In Europa si calcola ci siano più di una ventina di start-up, la maggior parte in Regno Unito e Paesi Bassi, impegnate principalmente nella ricerca.
Gusto e consistenza
Oltre al problema dei costi, chi produce carne coltivata deve cercare di migliorare il gusto e la consistenza. L’assenza di struttura è un vantaggio nel caso però del fois gras, a cui sta lavorando l’azienda francese Gourmey. Per tutti gli altri produttori la carne macinata sembra al momento la via più facile da percorrere. Come per Meatable, azienda olandese, che sta lavorando alla produzione di una salsiccia di suino. Anche grazie alla ricerca italiana. “Nei Paesi Bassi usano tecnologie che abbiamo sviluppato nel nostro laboratorio per migliorare l’efficienza della produzione cellulare”, spiega Alessandro Bertero, professore al Dipartimento di biotecnologie molecolari e scienze per la salute dell’Università di Torino. Il ricercatore è tornato in Italia da Seattle, negli Stati Uniti, grazie a un finanziamento Armenise con cui ha potuto organizzare un laboratorio per la ricerca su cellule cardiache e scheletriche per possibili applicazioni di medicina rigenerativa. “L’oggetto principale del nostro lavoro rimane questo, ma la ricerca sulla carne coltivata sta esplodendo in tutto il mondo e noi abbiamo capito che quello che studiamo qui può essere utile, ma certo dobbiamo poter continuare”, sottolinea Bertero.
Chi invece sta lavorando per migliorare la consistenza della carne coltivata è il gruppo di Cesare Gargioli, ricercatore nel Dipartimento di biologia dell’Università Tor Vergata di Roma, i cui lavori prendono spunto dalla ricerca sulla rigenerazione muscolare per chi ha subito un infortunio. “Dal 2005 lavoriamo, anche grazie a finanziamenti del Ministero della difesa, studiando nei muscoli di maiale, la cui grandezza è paragonabile a quella umana, i processi di rigenerazione delle fibre muscolari. E lo facciamo anche grazie alla stampa 3D”, spiega il ricercatore. “Siamo arrivati alla carne coltivata attraverso queste ricerche e oggi riusciamo a stampare fibre di pecora, maiale e bovino combinandole con grasso per generare carne colturale. Stiamo lavorando per renderla più appetibile alla vista con una colorazione simile a quella della carne aggiungendo estratti di barbabietola e flavonoidi, già usati nei prodotti di origine naturale che simulano la carne.” A Tor Vergata riescono anche a stampare strutture di qualche centimetro di spessore grazie a una matrice a base di alginato, sostanza che viene usata in cucina per gelificare i dolci.
Opportunità di finanziamenti
Il Green Deal europeo, la strategia dell’Unione Europea per affrontare la crisi climatica, fa riferimento anche allo studio e allo sviluppo di fonti alternative di proteine e dedica consultazioni specifiche a questo tema nell’ambito del programma di finanziamento alla ricerca Horizon. Una di queste si chiude il 12 aprile prossimo e mette in palio diversi milioni di euro per studiare l’impatto sociale, economico, nutrizionale della carne e del pesce coltivati. Ma anche le agenzie spaziali sono interessate a promuovere la ricerca in questo campo. Nel 2019, l’Agenzia spaziale europea ha portato carne coltivata nello spazio, precisamente nella parte russa della Stazione spaziale internazionale, grazie a un accordo con Aleph Farms. La NASA finanzia da diversi anni progetti di ricerca e nel 2022 ha lanciato il Deep Space Food Challenge proprio per incentivare a trovare una soluzione per i viaggi di lunga durata. “D’altronde nei viaggi nello spazio profondo, con mesi se non anni di navigazione davanti, è impensabile fornire tutto il cibo agli astronauti. È necessario pensare a un sistema di produzione a bordo”, spiega Diana Massai, docente di bioingegneria industriale al Politecnico di Torino.
Insieme a Conti e Biressi, Massai ha appena sottoposto un progetto all’Agenzia spaziale italiana per lo studio di una soluzione che permetta di ottenere una porzione di tessuto strutturato nello spazio, per avere una fonte di proteine animali fresche sempre a portata di mano. A fare la differenza nelle navicelle spaziali saranno anche le dimensioni e l’efficienza dei bioreattori, specializzazione proprio di Massai. Anche in questo caso, comunque, si tratta di processi e tecnologie mutuati dalla ricerca biomedica. “L’espansione delle cellule staminali che avviene nei bioreattori per lo sviluppo della carne coltivata non è diversa da quella che produce le proteine con cui, per esempio, si realizzano i kit diagnostici per COVID”, commenta Massai.
I dubbi
Tutto bene quindi? La carne coltivata ha la potenzialità di soppiantare quella allevata nel giro di pochi anni per via della sua eticità e del suo minore impatto ambientale? I dubbi, anche fra i ricercatori, sono diversi, ma certo la soluzione non è impedire la ricerca. Anzi, è proprio lo studio dei processi di produzione, delle caratteristiche nutrizionali, dell’impatto ambientale che potrà fornire risposte. La carne coltivata viene anche indicata come etica, perché con essa si risparmia la macellazione di molti capi di allevamento. Ma che dire della sua sostenibilità? “Gli studi finora condotti non sono risolutivi ed è indubbio che, come tutte le produzioni, anche quella di carne coltivata, richiede energia: i bioreattori devono essere alimentati e questo è un processo energivoro”, spiega Massimiliano Petracci, professore al Dipartimento scienze e tecnologie agroalimentari all’Università di Bologna.
C’è poi il tema del valore nutrizionale. “L’essere umano si è coevoluto con le specie animali che consuma. Riprodurre in laboratorio la carne è molto difficile perché non è solo una questione di fibre con i giusti contenuti di aminoacidi, ci sono una serie di micronutrienti all’interno della carne di cui ancora non conosciamo fino in fondo l’interazione con il nostro organismo”, continua Petracci. Che non faccia male lo sappiamo, ma che nutra tanto quanto la carne allevata è tutto da dimostrare.
Infine, cosa comporta dal punto di vista ambientale abbandonare l’agricoltura e l’allevamento? Certo la pratica intensiva ha un impatto ambientale molto importante, ma queste attività hanno anche un ruolo più complesso di mantenimento degli ecosistemi e contribuiscono alla cura del territorio. “Rendere questa produzione totalmente industriale potrebbe avere delle conseguenze importanti anche dal punto di vista ambientale, che vanno studiate. Non c’è dubbio che in futuro mangeremo anche carne coltivata, ma dobbiamo ancora capire come guidare questo cambiamento per il meglio”, conclude Petracci. Per questo serve la ricerca.
Fonte: Le Scienze