Natalità, invecchiamento e assistenzialismo: quando piove, meglio aprire l’ombrello!
Articolo del 08 Luglio 2023
Dati alla mano, il nostro Paese sta andando incontro a un’importante transizione demografica: un fenomeno che richiede interventi capaci di ridurre i rischi dell’invecchiamento, tutelando sia la salute e il benessere dei Silver italiani sia la sostenibilità del nostro sistema di welfare.
Quando piove si apre l’ombrello, il che significa che ci sono cose da fare e altre da evitare: infatti, quando la pioggia cade non si può fermare, ci si può solo riparare aprendo un ombrello. Allo stesso modo, la transizione demografica, e quindi l’invecchiamento della popolazione, almeno da qui al 2045/50, salvo incrementi improponibili di migranti, è ormai già scritta e definita: non si può modificare. Certo, tutte le attività a sostegno della natalità sono le benvenute ma, anche se improvvisamente si verificasse nei prossimi 2/5 anni un aumento delle nascite, non si risolverebbe né il problema dell’invecchiamento e neppure quello relativo all’aumento della forza lavoro, poiché nel “picco” della transizione la maggior parte dei nati nel 2024/27 sarebbe ancora sui banchi di scuola.
Occorre quindi mettere in campo azioni che, quantomeno, possano ridurre i rischi dell’invecchiamento, attenuandoli e, se si è bravi, ottenere anche da questa fase storica delle positività. Poi, a partire dal 2045, il tasso di natalità inizierà ad aumentare, seppure lentamente, e inizierà un nuovo ciclo.
Non si tratta di essere ottimisti a tutti i costi o fautori della decrescita felice e, certo non si può imporre come nei tempi bui alle donne di fare figli; così come è altrettanto inutile disperarsi per il calo della natalità. Bisogna piuttosto affrontare la demografia con buon senso, organizzando la società, la produzione, la distribuzione e i consumi e, forse, avremo una Italia più saggia, con maggiore senso del dovere e meno consumista. Forse, avremo meno abitanti (4/5 milioni in meno ma dubito che ci accorgeremo di questa mancanza), ci sarà meno PIL complessivo e magari più PIL pro capite e, se sapremo affrontare questa ineludibile transizione demografica, potremo avere una società più tranquilla e felice. La vera sfida è di invecchiare attivamente, lavorando anche dopo i 67 anni e facendo molta prevenzione per affrontare in buona salute l’ultima parte della nostra vita.
Per quanto riguarda le pensioni e il mercato del lavoro, nonostante l’onda dei baby boomer, il rapporto attivi/pensionati potrebbe mantenersi nei prossimi anni su livelli accettabili (1,5 attivi per pensionato), così come la sostenibilità finanziaria del sistema, grazie in particolare al metodo di calcolo contributivo e all’adeguamento dell’età di pensionamento all’aspettativa di vita. Il nostro sistema dispone già appunto di questi due stabilizzatori automatici. L’importante è non modificarli evitando le eccessive anticipazioni, tipo Quota 100 – Quota 103, Opzione Donna, salvaguardie varie, anticipi pensionistici per i lavori gravosi o i lavoratori fragili di cui non v’è traccia nella medicina ufficiale. Queste misure hanno mandato in pensione, dal 2012 a oggi, oltre 850mila persone con requisiti molto più favorevoli di quelli legali, mettendo a rischio l’equilibrio previdenziale raggiunto nel 2018; equilibrio che invece deve essere rafforzato per far fronte alla citata ondata dei baby boomer.
Non possiamo permetterci né oggi né tantomento nella transizione demografica, di avere solo poco più del 53% degli over 55 anni che lavora. Un’azione da fare è ridurre la spesa assistenziale, che ormai vale circa 160 miliardi erogati ogni anno esentasse per la stragrande parte a sostegno diretto o indiretto delle famiglie. Se consideriamo che l’importo totale delle pensioni ammonta a 165 miliardi netti e che gli ammortizzatori sociali di cui beneficia un numero abnorme di lavoratori (nel 2021, secondo i dati INPS, circa 2,5 milioni, più del 10% del totale), costano 25 miliardi l’anno, lo Stato immette ogni anno nel sistema Italia oltre 350 miliardi: quasi 6.000 euro l’anno pro capite, bambini compresi. Se una famiglia ha in media 2,31 persone (dato Istat), incassa mediamente oltre 13.600 euro netti l’anno.
“Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso” è il titolo di un volume di Andrea Colamedici e Maura Gancitano che mette a nudo l’irrealtà in cui vivono e di cui parlano politici, sindacati, media e spesso, purtroppo, anche la Chiesa che ha perso la parola biblica “doveri”. Si capisce quindi perché è difficile trovare gente che lavora: bastano spesso piccoli lavoretti in nero, una bella assistenza, non molte pretese e il mese è fatto senza assumersi responsabilità e con poca fatica, tanto un pacco Caritas o similari arriva sempre, anche ogni settimana. A queste somme vanno poi aggiunte la spesa sanitaria e la spesa scolastica che, in Italia, sono totalmente gratis per la gran parte (oltre il 70%) della popolazione. Una famiglia tipo con un componente occupato, 2 figli e il coniuge a carico, e con un reddito complessivo di 25mila euro lordi l’anno, paga in media di IRPEF – grazie ai bonus Renzi e agli sgravi fiscali circa 194 euro l’anno. Tuttavia, questa famiglia percepisce dallo Stato (e quindi da tutti noi collettività) sotto forma di servizi 8.280 euro l’anno in media per la spesa sanitaria (2.070 euro pro capite) e 5.250 euro per la spesa scolastica (la spesa statale è di circa 63 miliardi l’anno); e oltre a questi ci sarebbero da considerare l’AUUF e spesso anche il reddito di cittadinanza (oggi assegno di inclusione), che va anche a chi è in NASpI!
E la lamentela generale è che lo Stato fa ancora poco, tant’è che nel 2023 è applicata una decontribuzione del 2% sui redditi fino a 35mila euro che il Decreto Lavoro ha elevato per il periodo luglio-dicembre ha elevato al 6%, mentre per i redditi fino a 25mila euro si passa dal 3% al 7%: il tutto a carico del 12,95% dei lavoratori che dichiarano più di 35mila euro e che sono esclusi, come “premio”, da qualsiasi agevolazione. Ovviamente, la manovra mette a rischio i conti pensionistici che già nel 2023 devono essere integrati con trasferimenti dal bilancio dello Stato per 23 miliardi proprio a causa delle decontribuzioni: in pratica, quasi tutto il deficit INPS.
Anche questa sarebbe una cosa da non fare in vista dell’invecchiamento. Diversamente, si dovranno mettere tasse e contributi di solidarietà a carico dei soliti noti che saranno sempre più vecchi.
Fonte: Itinerari previdenziali