Invecchiamento, come affrontare il rischio della non autosufficienza?
Articolo del 14 Ottobre 2019
Benché al momento tra gli operatori sia ancora acceso il dibattito su una definizione pienamente condivisa, è possibile definire come non autosufficienti tutte quelle persone che, a causa di malattie croniche, dell’età o di altre limitazioni psico-fisiche, necessitano di assistenza in modo continuato. In ogni caso, punto centrale della questione è l’incapacità di svolgere autonomamente alcune delle più elementari azioni quotidiane (ad esempio, camminare, vestirsi, etc) indipendentemente dalla causa scatenante, che può essere tanto un evento infortunante o una malattia quanto una condizione strettamente legata all’anzianità del singolo soggetto.
Non necessariamente quindi, la condizione di non autosufficienza è legata all’età, ma è comunque indubbio che il progressivo invecchiamento della popolazione rende il tema di estrema attualità, ancor di più nel caso dell’Italia, che con una speranza di vita a 65 anni (pari nel 2016) a 19,1 anni per gli uomini e le 22,4 per le donne ci colloca tra i Paesi più longevi al mondo. Vivere di più non significa però necessariamente vivere meglio: circa un anziano su due soffre almeno di una malattia grave o è multi-cronico, con quote tra gli ultraottantenni rispettivamente del 59% e al 64%. Quasi un milione e mezzo di anziani (l’11%), in massima parte ultrasettantacinquenni, riferisce gravi difficoltà in almeno un’attività di cura della persona e le persone in difficoltà aumentano ulteriormente se si considerano le attività quotidiane di tipo domestico: quasi un terzo degli over 65 e quasi la metà degli over 75 ha gravi difficoltà a svolgere almeno un’attività quotidiana di tipo domestico.
Numeri che lasciano facilmente intuire anche i possibili impatti socio-economici della non autosufficienza: nell’arco dei prossimi trent’anni la spesa pubblica per non autosufficienza potrebbe pesare almeno il 3%, mentre già grava sui bilanci familiari per almeno 9,2 miliardi di euro.
Quali tutele da parte dello Stato? Indennità di accompagnamento e RSA
Premessa indispensabile a farsi è che, quando si parla di non autosufficienza, il fine di tutti gli interventi sanitari e socio-assistenziali non è normalmente la guarigione, spesso impossibile, bensì il mantenimento della migliore condizione possibile di salute e di benessere psico-fisico del paziente, considerandone dunque bisogni globali e contesto di riferimento (realtà familiare, etc). In quest’ottica, al momento, lo Stato italiano interviene a sostegno delle persone non autosufficienti con diverse tipologie e livelli di sostegno che, di fatto, coinvolgono tanto le amministrazioni centrali quanto gli Enti locali. In particolare, si ricordano:
- l’indennità di accompagnamento, prestazione economica erogata dall’INPS ai soggetti invalidi o mutilati, cui sia stata riconosciuta una condizione di non autosufficienza e, in particolare, di cui sia stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore e/o l’incapacità di compiere i principali atti di vita quotidiana autonomamente, in assenza di assistenza continua;
- l’assistenza socio-sanitaria, delegata alle Regioni, che prevede l’assistenza residenziale agli anziani e ai disabili, l’assistenza non-residenziale (strutture semi-residenziali e assistenza domiciliare) e l’assistenza rivolta ai soggetti affetti da dipendenze (alcolisti e tossicodipendenti) o patologie psichiatriche. In questo caso, dunque, la prestazione consiste nell’erogazione di servizi per il tramite del SSN, indipendente dall’età e dal reddito. I criteri di valutazione dello stato di non autosufficienza per accedere alle diverse prestazioni possono tuttavia differire a livello regionale;
- le prestazioni socio-assistenziali erogate dagli enti locali territoriali, in prevalenza Comuni, e soggette alla prova dei mezzi.
Attenzione! Le Residenze Sanitarie Assistenziali, più comunemente note come RSA, sono dunque strutture residenziali socio-sanitarie destinate ad accogliere persone anziane non autosufficienti che hanno bisogno di assistenza medica, infermieristica o riabilitativa, generica o specializzata. Non vanno pertanto confuse con le case di riposto, a differenza delle quali è prevista la presenza di un medico 24 ore su 24, un terapista ogni 40 ospiti e un infermiere ogni 5. In altri termini, proprio perché gli ospiti di una RSA non sono nemmeno parzialmente autonomi, viene ritenuta necessaria una costante presenza medica e infermieristica, oltre che un aiuto continuativo nel garantire il regolare svolgimento delle attività quotidiane da parte dei soggetti ospitati. Sul territorio nazionale, alle RSA pubbliche si affiancano anche strutture di tipo privato. Mentre in questo secondo caso, l’onere della retta è solitamente a carico dell’ospite o dei suoi familiari, l’accesso è normalmente concordato con l’Ufficio dei Servizi Sociali del Comune nell’eventualità di strutture pubbliche. Anche in questo caso, può essere previsto il pagamento di una retta, ma entità e modalità sono generalmente definite sulla base della condizione reddituale e patrimoniale dell’ospite.
I permessi retribuiti ai sensi della legge 104/92
Una menzione particolare spetta invece alla legge 104/92 che, nell’ottica di favorire l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, istituisce una particolare tipologia di permessi retribuiti che il dipendente che si trovi nella condizione di caregiver può richiedere al proprio datore di lavoro. Più precisamente, la persona che richiede o per la quale si richiede questo tipo di permessi deve trovarsi in una condizione di disabilità particolarmente grave; possono pertanto farne richiesta:
- disabili in situazione di gravità;
- genitori, anche adottivi o affidatari, di figli disabili in situazione di gravità;
- coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto, parenti o affini entro il secondo grado di familiari disabili in situazione di gravità. Il diritto si estende anche ai parenti e agli affini di terzo grado soltanto qualora i genitori o il coniuge o la parte dell’unione civile o il convivente di fatto della persona con disabilità grave abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano a propria volta affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Possono farne poi in ogni caso richiesta solo i lavoratori dipendenti, mentre non ne hanno diritto lavoratori domestici o a domicilio, lavoratori agricoli a tempo determinato autonomi e parasubordinati. In tutti i casi, la condizione invalidante o di non autosufficienza deve essere riconosciuta a mezzo di appositi accertamenti sanitari. Poiché i permessi, totalmente a carico dell’INPS, sono pensati per fornire cure e assistenza, non è possibile farne richiesta nel caso in cui il disabile grave sia ricoverato a tempo pieno presso strutture ospedaliere, RSA o affini.
Una volta concessi, i permessi retribuiti ai sensi della legge 104/92 si traducono, per il lavoratore disabile, in tre giorni riposo al mese, anche frazionabili in ore o, in alternativa, in riposi orari giornalieri di una o due ore. Nel caso dei caregiver, occorre invece distinguere sulla base dell’età dell’assistito; a ogni modo, nel caso di genitori, coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto, parenti e affini della persona in situazione di gravità, spettano tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore.
Il Fondo Nazionale per la non autosufficienza
Tra gli interventi dello Stato a favore della non autosufficienza, occorre poi necessariamente citare anche il Fondo nazionale per la non autosufficienza istituito con la legge 296/2006, con l’obiettivo di fornire sostegno ad anziani non autosufficienti e persone affette da condizioni invalidanti particolarmente gravi. A tal fine, il Fondo eroga dunque risorse aggiuntive rispetto a quelle già destinati alla copertura dei costi delle prestazioni economiche, sanitarie e socio-assistenziali erogate per il tramite di INPS, SSN, Regioni ed enti locali, risorse indirizzate per garantire su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali e, nello specifico, per favorire una dignitosa permanenza del soggetto non autosufficienza presso il proprio domicilio o, comunque, interventi innovativi in materia di vita indipendente, così da evitare l’istituzionalizzazione.
Il Fondo è stato reso strutturale nel 2015 e per il 2018 la legge di Bilancio ha previsto, a regime, una dotazione pari a circa 450 milioni di euro (per ciascun anno del triennio 2018-2020). Le risorse – per il 2018 pari a poco più di 430 milioni di euro – sono poi annualmente attribuite alle Regioni in funzione della popolazione anziana non autosufficiente residente e di specifici indicatori socio-economici, a mezzo di un apposito decreto interministeriale.
Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia resta tuttavia in ritardo nel riformare il sistema di servizi pubblici destinati in particolar modo alle persone anziane non autosufficienti: come evidenziato dai player del settore, le risposte ai problemi posti dal progressivo invecchiamento della popolazione risultano attualmente inadeguate sia sotto il profilo quantitativo che quantitativo, scontando il peso di una forte frammentazione dei diversi interventi (con conseguente rischio di inappropriatezza delle prestazioni e dispersione delle risorse). In tale contesto, un punto di riferimento importante per una “ristrutturazione del sistema” è comunque rappresentata dal Piano Nazionale Cronicità (PNC).
Il ruolo del privato: assistenza sanitaria integrativa e polizze assicurative Long Term Care
Se, da un lato lo Stato ha evidenti difficoltà nell’incrementare la propria spesa dedicata al welfare, dall’altro anche il welfare familiare si rivela sempre più debole nell’affrontare la sfida della non autosufficienza per varie ragioni: atomizzazione delle famiglie, difficoltà nel conciliare vita privata e lavoro, riduzione delle realtà abitative nei maggiori centri urbani.
Di qui, l’importanza innanzitutto di un nuovo approccio culturale, che metta al centro del sistema non solo la “malattia”, quanto piuttosto la persona e il suo progetto di cura e di vita nel complesso, tenendo cioè conto tanto dell’aspetto clinico quanto del contesto economico, ambientale e familiare in cui si colloca il paziente non autosufficiente. E, in seconda battuta (ma non per ordine di importanza), anche di un approccio multidimensionale e integrato, che metta cioè a fattor comune l’attività e l’esperienza di tutti i soggetti coinvolti affinché sia appunto possibile pervenire alla costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali – in gergo tecnico, PDTA – personalizzati e dinamici, in una logica di accompagnamento e non solo di cura.
D’altra parte, per ridurre costi e impatti della non autosufficienza per i nuclei familiari ancor più fondamentali si rivelano in quest’ambito le possibili sinergie tra pubblico e privato. In quest’ottica, in particolare, mutualità e assicurazioni possono senza dubbio contribuire a ripartire rischi e bisogni correlati alla non autosufficienza, a vantaggio del singolo ma anche della collettività. Quali gli strumenti percorribili?
Non ancora particolarmente diffuse, pur a fronte di un aumento del rischio di non autosufficienza, sono le cosiddette polizze assicurative Long Term Care (LTC), che proteggono dal rischio temporaneo o definitivo di perdita di autosufficienza, intesa per l’appunto come perdita della capacità di svolgere le più semplici attività di vita quotidiana, non necessariamente dovuta a malattia o infortunio, ma imputabile anche a senescenza. In particolare, le azioni elementari utili anche ai fini della stipula del contratto sono normalmente individuate secondo il metodo Activities of Day Living (ADL) sono:
- lavarsi
- vestirsi e spogliarsi
- utilizzare i servizi
- muoversi, spostarsi dal letto alla poltrona e viceversa
- alimentarsi
- capacità di controllo della continenza
La misura minima delle ADL mancanti per la definizione di non autosufficienza può in ogni caso variare da contratto a contratto, anche nel caso di assicurazioni collettive.
Semplificando, le coperture più diffuse possono essere di due diverse tipi. Nel primo caso, probabilmente quello più noto, si segue il cosiddetto modello “ad accumulo”, che consente appunto di accumulare risparmi in un fondo speciale: al presentarsi della condizione di non autosufficienza, all’assicurato viene quindi garantita l’erogazione del capitale o una tantumo nella forma di rendita vitalizia, resa per tutto il tempo in cui l’assicurato resta nella condizione di non autosufficienza e di entità commisurata a quanto accumulato fino a quel momento. Proprio per questo, la rendita viene attivata solo dopo che la compagnia di assicurazione ha avuto modo di accertare lo stato di non autosufficienza dell’assicurato e perdura a suo beneficio al permanere della condizione di non autonomia, anche vita natural durante quando necessario. Nel secondo caso, che segue invece il cosiddetto modello “a ripartizione”, la sottoscrizione della polizza implica che, una volta accertata la non autosufficienza, sia la compagnia a farsi carico delle eventuali spese socio-assistenziali – fino al massimale prestabilito – per tutto il perdurare della condizione. In un certo senso, si può dunque affermare che in questo caso la polizza non eroga rendite ma servizi, i cui fornitori sono tendenzialmente individuati dalla parte assicuratrice stessa. Meno frequente è il rimborso diretto (totale o parziale) delle spese sanitarie e assistenziali o del costo per l’assistenza, sempre e comunque nei limiti del massimale assicurato.
Attenzione! In entrambi i casi, rendita o massimale potrebbero comunque rivelarsi non sufficienti alla copertura di tutte le spese per la non autosufficienza, che la parte assicuratrice non è del resto tenuta a garantire.
La sottoscrizione di polizze LTC è comunque fiscalmente agevolata. In particolare il Decreto del Ministero delle Finanze del 22 dicembre 2000 estende anche alla Long Term Care la detrazione d’imposta del 19% sui premi versati, fino a un massimo di 1.291 euro l’anno (somma che fa comunque vita con quella delle altre assicurazioni detraibili). Non necessariamente, la copertura LTC viene però fornita in via autonoma: può essere ad esempio associata ad altre coperture assicurative o a forme di previdenza complementare e di assistenza sanitaria integrativa. In questo caso, la normativa prevede tuttavia che la normativa specifica di riferimento sia quella di ciascuna forma previdenziale o assicurativa: in questo caso cioè i contributi versati a un fondo pensione o a un fondo sanitario a fronte di una copertura assicurativa LTC beneficeranno del più favorevole regime di deducibilità dal reddito complessivo o di esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente secondo gli ordinari plafond annuali della previdenza complementare e dell’assistenza sanitaria integrativa, pari rispettivamente a 5.164,27 euro e 3.615,20 euro. Una particolare attenzione spetta infine alla Legge di Bilancio per il 2017 che, escludendo dal reddito di lavoro dipendente i premi per prestazioni LTC, ha di fatto gettato le basi per una maggiore diffusione della copertura del rischio di non autosufficienza all’interno dei piani di welfare aziendale.
Dunque, ciascuno secondo proprio ruolo e modalità, anche Casse di Previdenza, fondi pensione e fondi sanitari possono offrire coperture legate al rischio di non autosufficienza. Mentre alcune Casse prevedono per i propri iscritti l’attivazione automatica, e senza costi aggiuntivi, di una polizza LTC, che, in caso di perdita di autosufficienza, supporta l’iscritto grazie al versamento di un assegno mensile, alcuni fondi pensione permettono di scegliere, al momento del pensionamento, una rendita con l’opzione LTC: la rendita pagata periodicamente dal fondo raddoppia nel caso in cui si verifichino situazioni di non autosufficienza. Un’altra opzione talvolta offerta è quella di attivare, anche prima della maturazione dei requisiti pensionistici, una polizza LTC tra le cosiddette “prestazioni accessorie” che possono essere acquistate separatamente dagli iscritti.Fondi sanitari e società di mutuo soccorso, infine, offrono generalmente prestazioni di Long Term Care ai propri iscritti non autosufficienti secondo due modalità prevalenti: versando delle somme in un’unica soluzione o periodicamente, oppure coprendo direttamente o indirettamente le spese mediche e socio-assistenziali che dovrebbero esser sostenute dall’iscritto.
La tecnoassistenza: app e device per l’assistenza sanitaria
Nel dibattito su cronicità e non autosufficienza, assume infine in questo periodo un ruolo di primo piano anche la cosiddetta tecnoassistenza, intesa come l’insieme degli interventi sanitari e assistenziali resi possibili dall’impiego delle nuove tecnologie. Nelle sue diverse componenti (domotica, telemedicina, etc) l’evoluzione tecnologica si presenta infatti come un elemento strategico per migliorare l’adeguatezza delle risposte alle necessità dell’assistito, incrementando le possibilità di permanenza a domicilio, migliorando l’equità nell’accesso delle cure sia in termine di tempo che di tipologie di intervento e, infine, favorendo sul medio-lungo periodo il contenimento della spesa. Non solo, favorendo la preservazione dei livelli di autonomia dell’assistito, l’impiego della tecnoassistenza si traduce generalmente in un maggiore soddisfazione sia dell’assistito sia dei caregiver. In attesa di eventuali novità legislative, la tecnoassistenza è attualmente adottata solo nell’ambito di progetti sperimentali e non rientra all’interno dei Livelli Essenziali di Assistenza.
Fonte: pensionielavoro.it