COVID-19: testare i vaccini infettando soggetti sani.
Articolo del 21 Ottobre 2020
Per abbreviare il tempo di sperimentazione dei vaccini contro COVID-19 si è fatta strada l’idea di infettare direttamente con il virus i volontari subito dopo la vaccinazione. I pareri sulla validità etica e scientifica della procedura divergono, anche se la scelta dei soggetti sarà ristretta a chi ha un bassissimo rischio di sviluppare la malattia in modo grave.
Il 20 ottobre, il governo britannico ha firmato il contratto per il primo human challenge study di un vaccino anti COVID-19. Il test avrà luogo sotto la supervisione dell’Imperial College London e sarà condotto presso il Royal Free Hospital di Londra. L’articolo che segue, pubblicato originariamente il 2 ottobre, racconta in dettaglio che cosa sono questo tipo di studi
Il processo di sviluppo di un vaccino è lungo ed elaborato ma con il diffondersi della pandemia COVID-19 e il crescere dell’emergenza, si è iniziato a valutare l’opportunità di ridurre i tempi ricorrendo a un tipo diverso di sperimentazione.
Si tratta degli human challenge studies (studi di infezione umana controllata) in cui, invece di far tornare alla vita normale il volontario sano dopo averlo vaccinato, gli si inocula direttamente il patogeno per vedere se si ammala.
Anche grazie alle misure di contenimento, infatti, oggi i tassi di infezione tra la popolazione sarebbero troppo bassi per seguire la procedura classica e attendere il contagio naturale. In questo tipo di studi, inoltre, mancano i controlli negativi: dal punto di vista etico, con un patogeno come Sars-Cov-2 è infatti difficile sostenere la decisione di privare una persona del vaccino, anche se non se ne conosce la reale efficacia. Bisogna almeno provare a immunizzarla. E poi vedere se sviluppa COVID-19.
Con il passare dei mesi, l’idea di uno studio human challenge anche per COVID-19 ha preso piede sempre più. Lo scorso luglio, la richiesta di procedere è giunta direttamente sul tavolo di Francis Collins, il direttore dei National Institutes of Health, in una lettera aperta firmata da oltre un centinaio di scienziati, fra cui 15 premi Nobel. Non sorprende dunque la notizia, anticipata dal “Financial Times” il 23 settembre, che nel Regno Unito starebbe per partire un challenge study per testare il vaccino di Oxford.
Ma sull’opportunità di questa sperimentazione non c’è unanimità a causa delle implicazioni scientifiche, sociali ed etiche.
Al momento, l’intenzione sembra quella di proseguire con le due vie in parallelo, quella classica e quella challenge, perché ciò consentirebbe di mettere insieme più pezzi del puzzle: “Accorciare i tempi, avere più dati, orientare la ricerca e identificare eventuali candidati su cui approfondire la sperimentazione”, spiega Giuseppe Remuzzi direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri. “La procedura prevede che si inoculi il vaccino candidato, si qualifichi la risposta anticorpale e solo allora si somministri il virus. Il challenge study può aiutarci a stabilire l’efficacia del vaccino, ma anche a comprendere i meccanismi infettivi e di protezione immunitaria.”
I dubbi scientifici
I problemi scientifici di questi studi sono molti. Il gruppo di soggetti studiati in un challenge study è piccolo e, quindi, difficilmente porta all’individuazione di eventuali effetti collaterali rari; ed è omogeneo: ragioni di sicurezza impongono il reclutamento di soggetti con una bassa probabilità di sviluppare malattia in modo grave. In base al documento dell’OMS sui criteri chiave per l’accettabilità etica di questi studi, i volontari dovranno essere sani e di età compresa tra i 18 e i 25 anni.
In questo modo però “il gruppo su cui si conduce lo studio non è rappresentativo della popolazione che poi ne beneficerà “, spiega Barbara Zambelli, del Dipartimento di farmacia e biotecnologie dell’Università di Bologna. “La risposta immunitaria si modifica con l’età e le reazioni dei più vulnerabili possono differire alquanto da quelle della fascia a basso rischio.”
La non estendibilità dei risultati divide anche gli esperti dell’OMS: 11 dei 19 autori del rapporto di giugno dell’Advisory Group on Human Challenge Studies sono convinti dell’inapplicabilità agli anziani dei risultati di efficacia ottenuti nei giovani.
D’altra parte, “è inutile illuderci di arrivare a un vaccino che possa funzionare per tutti. Questo non accade neppure con il vaccino antinfluenzale”, taglia corto Remuzzi, proprio mentre dall’MRC Centre for Global Infectious Disease Analysis dell’Imperial College, che collabora com l’OMS, fanno sapere che “anche un vaccino imperfetto e solo parzialmente efficace sarebbe di grande beneficio per la salute pubblica”.
I rischi e il beneficio sociale
Quale peso assegnare al beneficio sociale, così strenuamente contestato dai no-vax? In questo caso, a differenza degli altri challenge studies in corso, si esporrebbero persone sane a un rischio di malattia anche molto severa per la quale non esiste un protocollo terapeutico. Tuttavia, questa è una situazione “di natura straordinaria”, come ha dichiarato un gruppo di esperti su “Science”, definendo il quadro etico di riferimento. L’alto valore sociale del rapido ottenimento di un vaccino controbilancerebbe di molto i rischi corsi dai volontari. Esperti di etica medica si spingono oltre, e parlano di “imperativo etico” a procedere.
“È in atto una grande discussione nella letteratura internazionale e non c’è consenso tra gli scienziati”, ammette Remuzzi. “La sicurezza è prioritaria. Il rischio per il soggetto, opportunamente selezionato e costantemente monitorato, è trascurabile. Non dimentichiamo che per COVID-19 il rischio di un aggravamento è alto quando non si interviene immediatamente.”
E comunque, insiste il farmacologo, “in medicina andrebbe abbandonata l’idea di rischio zero perché non esiste e non si può mai escludere l’eventualità di una reazione avversa non prevedibile. Purtroppo, siamo spesso vittime di dissonanze cognitive che non ci fanno percepire rischi ben maggiori, basti pensare all’omeopatia o al personale sanitario non vaccinato a contatto con pazienti anche immunodepressi”.
Tutto si basa sul bilancio costi-benefici, su cui si arrovellano i comitati etici di tutto il mondo quando devono autorizzare studi di sperimentazione sull’essere umano. Una valutazione che non può essere rimessa solo ai singoli individui. La popolazione sembra fiduciosa, stando al numero di adesioni all’iniziativa “1day sooner”: oltre 38.000 volontari di tutto il mondo chiedono solo di essere reclutati per fare la propria parte, convinti della necessità di questo sacrificio. Per il quale, in genere, si viene remunerati, altro aspetto problematico.
Comunque, il consenso conta. Su “Lancet Infectious Disease” i due bioeticisti australiani Euzebiusz Jamrozik e Michael Selgelid scrivono: “questi studi possono essere ragionevolmente considerati eticamente accettabili nella misura in cui essi sono accettati a livello internazionale e dalle comunità in cui vengono svolti”.
Tra le altre condizioni che i due elencano, ci sono anche quelle che l’OMS ha definito già nel 2016: bassi rischi per i partecipanti, elevata qualità scientifica della ricerca, enormi benefici per la comunità, selezione dei soggetti e pieno consenso informato. Puntualizza Remuzzi: “Il consenso informato non è una firma su un foglio, ma è spiegare e far capire quello che si sta facendo; inizia il primo giorno che incontro il mio paziente e si costruisce ogni volta che gli parlo, anche con la fiducia e la sua comprensione che io ho a cuore la sua salute”.
Basta il consenso informato?
La chiara comprensione da parte del volontario è davvero sufficiente nel contesto di un challenge study? “C’è qui un rilassamento delle regole di etica clinica che va giustificato: posso davvero infettare persone sane per rispondere al mio quesito scientifico? O non si tratta piuttosto di una scorciatoia?”, si chiede Silvia Camporesi, responsabile del master in bioetica e società del King’s College di Londra. Per la bioeticista, non ha senso chiedersi quale sia il livello di rischio accettabile, perché “il problema sta a monte e consiste nella mancata realizzazione delle premesse, cioè delle condizioni considerate necessarie all’ammissibilità di questi trial”.
Due punti in particolare sarebbero critici, secondo il bioeticista Søren Holm del dipartimento di legge dell’Università di Manchester: il valore sociale e l’accurata selezione dei pazienti. La loro non sussistenza impedirebbe a priori l’accettabilità etica dell’approccio challenge study e renderebbe ogni valutazione di costi-benefici uno sterile esercizio retorico.
Scrive Holm sul “Journal of Medical Ethics”: “Il beneficio sociale è una conditio sine qua non perché uno studio con infezione controllata sia etico, poiché è l’unico motivo che, potenzialmente, potrebbe giustificare la principale deviazione dai classici principi etici della ricerca sull’infezione umana controllata in assenza di una cura”. Ogni sperimentazione di questo tipo che dovesse partire, insomma, sarà “benintenzionata ma eticamente non giustificabile”.
L’opinione generale è che, al di là del dibattito e delle controversie, il trial partirà. L’annuncio ufficiale è atteso nei prossimi giorni.
Fonte: Le Scienze