Capelli grigi e stress, si passa dal sistema simpatico
Articolo del 01 Dicembre 2020
Uno studio pubblicato su Nature suggerisce la risposta a quest’ultima domanda, rivelando anche i meccanismi biomolecolari alla base del meccanismo. I ricercatori della Harvard University hanno infatti scoperto che lo stress attiva nervi coinvolti nella risposta “fuga o attacco” (flight or fight); questi, a loro volta, agiscono causando danni alle cellule staminali che consentono di rigenerare i pigmenti nei follicoli dei capelli.
«Tutti hanno un aneddoto su come lo stress influisce sul nostro corpo, in particolare capelli e pelle, gli unici tessuti che possiamo osservare dall’esterno», commenta in un comunicato
Ya-Chieh Hsu, senior author dell’articolo. «Noi volevamo capire se questa connessione esiste realmente e, se sì, come lo stress determina i cambiamenti nei diversi tessuti. La pigmentazione dei capelli rappresenta un buon sistema da cui partire, perché accessibile e trattabile. D’altra parte, eravamo realmente curiosi di scoprire se è vero che lo stress fa venire i capelli grigi».
Stress e sistema nervoso simpatico
Per riuscirci, i ricercatori hanno lavorato sui topi (anche il colore del loro mantello può cambiare, ad esempio con l’invecchiamento), testando diverse ipotesi. Ad esempio, lo stress avrebbe potuto influenzare il sistema immunitario, inducendolo ad attaccare le cellule responsabili della pigmentazione, i melanociti. Oppure, il responsabile avrebbe potuto in qualche modo essere il cortisolo, un ormone i cui livelli sono correlati alla risposta allo stress. Eppure, non solo i topi privati di sistema immunitario continuavano a ingrigire, ma lo facevano anche quelli cui erano state rimosse le surrenali, le ghiandole responsabili della produzione di cortisolo. Alla fine, i ricercatori sono approdati allo studio del sistema nervoso simpatico, correlato alle reazioni di attacco o fuga, nelle quale determina diversi effetti: ad esempio, consente indirettamente il rilascio di cortisolo e la contrazione dei vasi periferici, ed è responsabile della minor produzione di saliva, che determina l’effetto di “bocca secca” che associamo a uno spavento.
Tra le altre cose, al sistema simpatico si deve il rilascio di noradrenalina, un altro ormone importante per il suo ruolo nella reazione di attacco o fuga. I ricercatori hanno scoperto che, bloccando i recettori per questo ormone nelle cellule staminali che funzionano da riserva per i melanociti, l’ingrigirsi del pelo legato allo stress non avveniva. La noradrenalina agisce dunque su queste cellule: l’effetto è una sorta di iper-attivazione, per cui le staminali si differenziano in cellule mature, impoverendo prematuramente le scorte di cellule della pigmentazione. «Dopo appena pochi giorni, vanno perdute tutte le staminali. E una volta che queste sono andate, il pigmento non può più essere prodotto. Il danno è permanente», spiega Hsu. L’adrenalina è prodotta anche dalle ghiandole surrenali; rimuovendole, però, non si previene l’ingrigirsi del pelo, di cui è responsabile la produzione di ormone da parte del sistema simpatico. Solo bloccando quest’ultimo i ricercatori sono riusciti a impedire la perdita di colore legata allo stress.
Capire gli effetti ad ampio raggio dello stress
Diversi altri studi hanno cercato di indagare i meccanismi di scolorimento dei capelli, sia in relazione all’invecchiamento sia in relazione allo stress, nonché ad alcune malattie croniche.
Non si tratta, ovviamente, solo di rispondere a una mera curiosità aneddotica. Il lavoro appena pubblicato aiuta, invece, a evidenziare quanto ad ampio raggio sia la risposta del nostro organismo allo stress e come questo agisca sulle cellule staminali, un effetto ancora poco noto ai ricercatori. Ad esempio, scrive Nature, è noto che lo stress induce le cellule staminali ematopoietiche a lasciare le nicchie in cui si trovano nel midollo osseo, e può quindi forse impoverirne le scorte. Questo spiegherebbe come lo stress cronico compromette il sistema immunitario. «Capire come i nostri tessuti cambiano sotto stress è il primo, critico passo verso un trattamento che possa fermare o invertire l’effetto», conclude Isaac Chiu, uno degli autori dello studio. «Abbiamo ancora molto da imparare in questo campo».
Fonte: Oggi Scienza