Tempi e dosi del vaccino: perché non si può essere creativi

Articolo del 19 Gennaio 2021

In questi giorni si discute di cambiare tempi e dosi rispetto a quanto fatto durante i trial clinici. Si tratta, però, di un azzardo scientifico. Come sottolineato da esperti e Nature.

No, le tempistiche di una vaccinazione non sono à la carte, allungabili o restringibili a fisarmonica a seconda della situazione. E lo stesso vale per i dosaggi, per i quali non si può ricorrere alla formula approssimativa qb, quanto basta. Quello che stanno proponendo alcuni paesi, nella morsa della terza ondata, è un azzardo scientifico, e andrebbe evitato.

Non perché non possano esistere schemi di vaccinazione differenti, in certi casi anche più efficaci di quelli già approvati, ma perché per nessuno dei vaccini in uso esistono dati in merito, e c’è un rischio tanto grave quanto concreto: che un’immunità insufficiente, data da schedule di immunizzazione improvvisate, favorisca enormemente lo sviluppo di nuovi ceppi resistenti, che potrebbero rendere inefficaci gli stessi vaccini.

Del resto, si pensa che l’origine del famigerato ceppo inglese sia da ricercare in qualcosa del genere: una risposta immunitaria incompleta innescata in un paziente immunodepresso.

Così la pensa la FDA, che in una presa di posizione ufficiale sul tema, oltre ad aver respinto l’idea di ritardare la seconda somministrazione, nei giorni scorsi ha affermato, quanto alla possibilità di dimezzare le dosi: «In questo momento, ipotizzare dosaggi o tempistiche diversi da quelli autorizzati è prematuro e non supportato da solide basi scientifiche».

Così la pensano l’OMS, che ha detto che le seconde dosi dei vaccini non vanno somministrate oltre le sei settimane dalle prime, e Anthony Fauci, che ha affermato che questa è la risposta sbagliata a una domanda giusta, quella relativa al miglioramento della logistica dei vaccini (negli Stati Uniti al momento sono state iniettate circa un terzo delle dosi disponibili).

Così, poi, la pensano anche Barney Graham, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases Vaccine Research Center, e la stessa Pfizer, che ha affermato che non ci sono dati che dimostrino che la risposta alla prima inoculazione resti elevata dopo 21 giorni e che è necessario rispettare le modalità proposte.

La stessa azienda, del resto, qualche giorno fa aveva diffidato dal somministrare il suo vaccino insieme ad altri. Così, infine, si esprimono molti esperti sulle riviste scientifiche, commentando con preoccupazione il panico che sta inducendo alcuni governi a proporre di somministrare una sola dose anziché due, oppure di dilazionare molto in là nel tempo la seconda o, in casi estremi, di mischiare vaccini diversi in uno stesso soggetto a seconda delle scorte, per allargare prima e il più possibile la platea dei vaccinati.

Tra gli altri, se ne è occupata Nature, che ha appena pubblicato un articolo nel quale espone diversi punti di vista di esperti in vaccinazioni, immunologia, microbiologia e virologia. I quali insistono su un punto: tranne che in situazioni veramente drammatiche come quelle di alcuni paesi che hanno pochissimi vaccini, prima di prendere iniziative di cui ci si potrebbe pentire amaramente, bisogna raccogliere dati.

Lo stesso emerge da un secondo articolo, specificamente dedicato alla situazione inglese. Che è paradigmatica del caos: secondo il criticatissimo Joint Committee on Vaccination and Immunisation, tra la prima e la seconda dose il vaccino Pfizer assicura una protezione del 52%, mentre quella di AstraZeneca dopo 22 giorni sembra essere del 73%. Ma i dati in merito non sono stati resi noti, così come non è suffragata da prove un’altra affermazione del Committee: quella secondo cui l’immunità dopo la prima dose dura almeno 12 settimane.

Né ci sono dati sui rischi che una protezione di questa entità favorisca la selezione di ceppi resistenti. Per non parlare del fatto che le persone potrebbero sentirsi autorizzate ad assumere comportamenti a rischio, o non presentarsi per i richiami, qualora diventassero disponibili.

Si tratta – sottolineano in molti in queste ore – di principi elementari di sanità pubblica, di farmacologia e di vaccinologia, che apprendono gli studenti di medicina e di farmacia dei primi anni, e che in altre situazioni non sarebbero messe in discussione da nessuno. Ma la pandemia da Covid, anche in questo, non è una crisi “normale”.

Che cosa dice la scienza

Moltissimi vaccini sono basati su una somministrazione che prevede una prima dose e un richiamo, con tempistiche molto ben definite. Il principio è semplice: la prima dose innesca, entro qualche giorno, una risposta, che però può non essere persistente. Affinché siano sintetizzate le cosiddette cellule della memoria immunitaria, e quest’ultima diventi quindi duratura (in certi casi permanente) ed efficace nei successivi contatti con l’agente infettivo, è necessario aspettare un certo numero di giorni, e poi stimolare nuovamente l’organismo.

Solo così si hanno le cellule giuste. In alcuni tipi di vaccini come quelli nei quali c’è un vettore virale come quello di AstraZeneca, o lo Sputnik russo, aspettare più a lungo potrebbe rivelarsi la scelta giusta, anche se è tutto da dimostrare.

Infatti, dopo la prima iniezione, l’organismo produce anticorpi anche contro il vettore, e se la seconda dose è somministrata troppo presto, c’è il rischio che questi ultimi neutralizzino del tutto il vettore stesso, rendendo inutile la vaccinazione. Una delle ipotesi avanzate sulla stranezza dei risultati della sperimentazione proprio del vaccino AstraZeneca, è questa: il protocollo con 1,5 dosi avrebbe funzionato meglio (conferendo un’efficacia del 90% contro quella del 62% delle due dosi piene) non per la dose inferiore ma perché, a causa delle incongruenze, ci sono stati dei ritardi nella somministrazione del richiamo.

Ma prima di modificare quanto è stato studiato su decine di migliaia di persone – ribadiscono tutti gli esperti – bisogna effettuare altri studi, e confermare o meno che il cambiamento è migliorativo, o almeno non peggiorativo.

Sugli altri vaccini come quelli a RNA, poi, i presupposti teorici sono molto meno chiari e anzi, si teme che un’attesa troppo lunga comprometta l’efficacia, perché dopo la prima dose la produzione di anticorpi non è molto elevata e questo, oltretutto, potrebbe favorire lo sviluppo di ceppi resistenti.Per ora quindi l’opinione più condivisa è quella che prevede tentativi di questo genere solo in situazioni disperate come quella del Messico, che ha ricevuto finora solo 100.000 vaccini, a fronte di mille morti giornalieri, e di una popolazione di 126 milioni di abitanti che in gran parte non hanno accesso a tamponi o a cure soddisfacenti.

Per tutti gli altri, vale ciò che ha ribadito Fauci in un’intervista nell’ambito un lungo articolo del National Geographic: «Esplorare le alternative di dosaggio in modo più aggressivo (cioè al di fuori di sperimentazioni controllate, ndr) avrebbe senso, dice, se avessimo più persone che vogliono essere vaccinate rispetto alle dosi disponibili. Ma in questo momento, non è il nostro problema», riferendosi alla realtà statunitense. Non è neppure il problema dell’Italia, che pure sta vaccinando con un’efficienza molto superiore a quella americana, ma alla quale le forniture arrivano con regolarità, e sono destinate ad aumentare nel giro di poche settimane.

 

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