Perché non è indispensabile che i vaccini per COVID-19 impediscano di contagiare gli altri
Articolo del 20 Gennaio 2021
I dati non sono ancora sufficienti per stabilire se, oltre a garantire l’immunità a chi li riceve, i vaccini per COVID-19 possano anche impedire di contagiare altre persone. L’esperienza dimostra però che i vaccini possono sconfiggere le malattie infettive anche con un’efficacia e una capacità di limitare il contagio inferiori al 100 per cento.
Il lancio dei vaccini COVID-19 è finalmente avvenuto. Si spera così che sia all’orizzonte l’immunità di gregge, la protezione da una malattia infettiva che si verifica una volta che una parte sufficiente della popolazione è stata vaccinata o infettata. Ma anche se i primi vaccini autorizzati all’uso d’emergenza dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti sono eccezionalmente efficaci nel prevenire COVID-19, i dati non possono ancora dirci se ostacolano la trasmissione di SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia.
Il problema se l’immunizzazione, oltre a impedire di ammalarsi a chi la riceve riesca anche a evitargli di contagiare gli altri, non riguarda solo l’attuale pandemia. Secondo Dawn Bowdish, professore di patologia e medicina molecolare alla McMaster University, la cosiddetta immunità sterilizzante, è stata un fattore chiave per eliminare il vaiolo.
Il virus del vaiolo, o Variola virus, ha colpito le popolazioni umane per migliaia di anni, come dimostrano le tracce di pustole trovate sulla mummia del faraone egiziano Ramses V e risalente a 3000 anni fa. Gli studi indicano che il virus circolava a livello globale nel I secolo d.C. per poi diventare una pandemia che durò per secoli. Gli storici ritengono che la malattia abbia ucciso più di 300 milioni di persone tra il 1900 e la sua eradicazione ufficiale nel 1980. “Il vaiolo ha cambiato la storia del mondo, cambiando le successioni di casate reali e gli esiti di guerre che influenzarono i destini di interi paesi”, spiega Natasha Crowcroft, consulente tecnico senior per il morbillo e la rosolia presso l’Organizzazione mondiale della Sanità.
La lotta contro il vaiolo ha portato ai primi tentativi di inoculazione e al vaccino del medico inglese Edward Jenner nel 1796. “La vaccinazione contro il vaiolo ha stimolato un’immunità sterilizzante, il che significa che non si è portatori del virus. Gli anticorpi che si generano, le risposte che si producono, eliminano completamente il virus dall’organismo”, dice Bowdish.
Molti dei vaccini ampiamente utilizzati oggi (contro il morbillo, per esempio) producono un’immunità sterilizzante molto efficace, ma altri, come il vaccino contro l’epatite B, non fanno altrettanto. Con quei vaccini, il sistema immunitario di un individuo è addestrato a prevenire le malattie, ma l’agente patogeno può persistere nel corpo della persona, ed è potenzialmente in grado di contagiarne altre. L’assenza di immunità sterilizzante implica che l’agente patogeno può continuare a circolare in una popolazione e causare malattie in persone non vaccinate e vulnerabili, o evolvere per eludere le nostre risposte immunitarie, spiega Bowdish.
Per i produttori di vaccini COVID-19, l’immunità sterilizzante potrebbe essere stata un traguardo nobile ma non necessario per frenare la malattia. Secondo Crowcroft, il concetto stesso di quell’immunità ha delle sfumature. “In effetti, lo spettro di protezione potrebbe essere inquadrato meglio come la misura in cui la vaccinazione impedisce la trasmissione del virus o dei batteri presenti in natura”, dice.
Il caso del rotavirus, che provoca grave vomito e diarrea ed è particolarmente pericoloso per neonati e bambini, è un buon esempio. La vaccinazione limita la replicazione del patogeno, ma non la blocca del tutto. Di conseguenza, non protegge da forme lievi della malattia. Riducendo la carica virale di una persona infetta, però, ne diminuisce la trasmissione, fornendo una significativa protezione indiretta. Secondo i Centers for Disease Control degli Stati Uniti, da quattro a dieci anni dopo l’introduzione di un vaccino contro il rotavirus negli Stati Uniti, avvenuta nel 2006, il numero di test positivi alla malattia è diminuito di una percentuale tra il 74 e il 90 per cento.
La via per il controllo vaccinale di una malattia infettiva, tuttavia, non è sempre così diretta. In ultima analisi, se l’inoculazione impedisce la trasmissione, e in quale misura, dipende dall’agente patogeno, dall’ospite od ospiti che infetta, e dall’interazione tra i due, dice Bowdish.
Per esempio, i vaccini contro Bordetella pertussis, il batterio responsabile della pertosse, sono molto efficaci nel prevenire la malattia, ma non eliminano completamente l’agente patogeno. Invece, poiché B. pertussis si replica nel tratto respiratorio superiore, gli anticorpi indotti dal vaccino applicano una pressione selettiva naturale per eliminare i batteri in cui sono attivati i geni che causano la malattia.
Poiché quei geni sono responsabili delle parti dei microrganismi prese di mira dagli anticorpi, i batteri che li tengono disattivati eludono la risposta immunitaria e si aggirano nel tratto respiratorio superiore senza essere scoperti, spiega Bowdish. Questo diventa un problema quando un soggetto con un sistema immunitario immaturo, come un neonato, contrae il patogeno. In assenza di anticorpi, i geni di B. pertussis che provocano la malattia si attivano nuovamente, facendo ammalare.
Tuttavia, l’introduzione dei vaccini per la pertosse negli anni quaranta del XX secolo ha ridotto i casi annuali negli Stati Uniti da più di 100.000 a meno di 10.000 entro il 1965. Negli anni ottanta, i casi iniziarono lentamente a risalire perché i genitori si rifiutavano sempre più di vaccinare i loro figli. Oggi c’è una rinnovata attenzione verso la riduzione delle opportunità di esposizione e per ottenere anticorpi per i neonati immunizzando le donne incinte e le neomamme.
Gli sforzi per arrestare la diffusione della poliomielite chiariscono ulteriormente quanto è complesso fermare un’epidemia.
Le due principali categorie di inoculazioni contro i poliovirus conferiscono tipi differenti di immunità. Il vaccino antipolio inattivato (IPV) protegge contro l’infezione sistemica e la conseguente paralisi, ma non arresta la replicazione virale nell’intestino, quindi non offre alcuna protezione indiretta agli individui non vaccinati. Il vaccino antipolio orale (OPV) genera un’immunità intestinale localizzata, prevenendo l’infezione e proteggendo dalla malattia e dalla trasmissione. Poiché l’OPV utilizza un poliovirus vivo indebolito, tuttavia, tra le popolazioni sottoimmunizzate in rari casi il virus attenuato muta, circola e torna a provocare la malattia.
La Global Polio Eradication Initiative e l’Organizzazione mondiale della Sanità raccomandano strategie di vaccinazione distinte a seconda del contesto locale. Nei luoghi in cui la polio naturale esiste ancora, l’OPV è la chiave per rallentare la trasmissione. Nelle zone in cui il virus naturale è stato eradicato, l’IPV mantiene le popolazioni protette. Grazie ai diffusi programmi di immunizzazione, gli Stati Uniti sono liberi dalla polio dal 1979 [in Italia dal 1982, NdR] e la malattia è in procinto di essere eradicata a livello mondiale.
In un articolo apparso sul numero di ottobre 2020 dell'”American Journal of Preventive Medicine”, i ricercatori hanno elaborato dei modelli di che cosa potrebbe significare un vaccino per COVID-19 con tipi differenti di protezione.
Hanno scoperto che se un vaccino protegge l’80 per cento delle persone immunizzate e il 75 per cento della popolazione viene vaccinato, potrebbe in gran parte porre fine a un’epidemia senza ulteriori misure come il distanziamento sociale. “Altrimenti, non sarà possibile fare affidamento sul vaccino per tornare alla ‘normalità'”, dice Bruce Y. Lee, coautore dell’articolo e professore alla CUNY Graduate School of Public Health and Health Policy. Cioè, se il vaccino previene solo la malattia o riduce la dispersione virale anziché eliminarla, potrebbero essere ancora necessarie ulteriori misure di salute pubblica. Ma anche in questo caso, Lee sottolinea che un vaccino non sterilizzante diffuso potrebbe comunque ridurre il carico sul sistema sanitario e salvare vite umane.
L’influenza è forse l’esempio migliore di che cosa aspettarsi in futuro. Il vaccino antinfluenzale più comune, il virus inattivato, non è “realmente sterilizzante perché non genera una risposta immunitaria locale nelle vie respiratorie”, dice Crowcroft. Questo fatto, unito a bassi tassi di immunizzazione (spesso inferiori al 50 per cento tra gli adulti) e alla capacità del virus dell’influenza di infettare e di spostarsi tra specie diverse, gli permette di cambiare costantemente in modi che rendono difficile il riconoscimento da parte del nostro sistema immunitario. Tuttavia, a seconda dell’anno, i vaccini antinfluenzali hanno dimostrato di ridurre i ricoveri tra gli adulti più anziani di circa il 40 per cento e i ricoveri in terapia intensiva di tutti gli adulti fino all’82 per cento.
Le ricerche sui coronavirus stagionali suggeriscono che SARS-CoV-2 potrebbe evolvere in modo simile per eludere il nostro sistema immunitario e le campagne di vaccinazione, anche se probabilmente a un ritmo più lento. E i dati sulla relazione tra sintomi, carica virale e infettività rimangono contrastanti.
Ma ampi precedenti indicano che i vaccini sono alla base di un efficace contenimento delle malattie infettive anche quando non forniscono un’immunità perfettamente sterilizzante. “Morbillo, difterite, pertosse, poliomielite, epatite B: sono tutte malattie a rischio epidemico”, dice Crowcroft. “E dimostrano che non abbiamo bisogno del 100 per cento di capacità di ridurre il contagio, o del 100 per cento di copertura o del 100 per cento di efficacia contro la malattia per trionfare sulle malattie infettive”.
Fonte: Le Scienze