Nuova tecnica di imaging migliorerà diagnosi e cura dell’epilessia

Articolo del 23 Febbraio 2021

Sul 30% dei pazienti affetti da una delle tante forme di epilessia note i farmaci non hanno effetto o lo perdono nel tempo (90mila pazienti solo in Italia) e le crisi si ripresentano. Si parla allora di farmacoresistenza contro la quale si usano farmaci di nuova generazione e, se non basta, si ricorre alla neurochirurgia che offre ottime chance di guarigione. L’epilessia mesiale del lobo temporale è forse la più frequente forma di epilessia farmacoresistente, ma anche una di quelle che meglio rispondono al trattamento di asportazione chirurgia del focus epilettico, cioè dell’agglomerato di neuroni lesi che scatenano le crisi.

Progressi

Finora non si aveva l’assoluta certezza su quando e se era proprio il caso di intervenire, ma uno studio appena pubblicato su Neuroimage Clinical dai ricercatori del Carle Illinois College of Medicine diretti da Graham Huesmann ha scoperto che tramite una nuova tecnica di imaging chiamata MRE, acronimo di Magnetic Resonance Elastography cioè elastosonografia in risonanza magnetica è possibile vedere con largo anticipo che in questa forma epilettica compare una gliosi reattiva a livello dell’ippocampo, con conseguente alterazione della microstruttura del tessuto. Ciò migliora ulteriormente l’efficacia di questo trattamento.

Perdita di neuroni dell’ippocampo

Il «primum movens» di questa epilessia è la perdita di neuroni dell’ippocampo, area cerebrale implicata nei processi della memoria e la gliosi rilevata dalla MRE è il meccanismo di compenso messo in atto dagli astrociti, cellule di sostegno del sistema nervoso centrale che vanno incontro a un’abnorme proliferazione per rimpiazzare il tessuto nervoso perso. Anche le più moderne tecniche di imaging come la risonanza magnetica non riescono a visualizzare subito queste alterazioni e le colgono solo quando si sono ormai verificate da tempo con la formazione della cicatrice astrocitica che ha sostituito i neuroni distrutti.

Diagnosi e trattamento

Una precoce individuazione di questo danno è fondamentale sia dal punto di vista diagnostico, sia da quello terapeutico. Può infatti dare una giustificazione ai primi sintomi lievi di questa epilessia costituiti dalla comparsa sempre più frequente dei cosiddetti fenomeni di déjà vu, cioè la sensazione di essere già stato in un posto o di aver già vissuto un’esperienza, che, nei casi peggiori, possono portare a una condizione simil-onirica. Dal punto di vista terapeutico, invece, può dar ragione della farmacoresistenza e sostanziare la necessità del trattamento neurochirurgico avendo inoltre chiaro il bersaglio da colpire al più presto evitando così al paziente non solo il perdurare della sintomatologia epilettica, ma anche la perdita della capacità di immagazzinare nuovi ricordi restando condannato a vivere solo nel passato. Comunque, al di là del valore della MRE per questa epilessia, disporre di uno strumento capace di individuare un marker forse presente anche in altre epilessie va ben oltre i risultati di questo studio.

Alterazioni dell’elasticità dei tessuti

E non stiamo parlando solo di epilessie, ma di decine di malattie che interessano ogni parte del corpo: situazioni simili a quella della gliosi ippocampica si verificano infatti ogni giorno nell’organismo e spesso all’inizio ci sfuggono: basti pensare ad esempio a una qualsiasi infiammazione cronica che vira in neoplasia. In tutti questi casi, quando si sta sviluppando un danno che sarà visibile anni dopo al medico, e prima di lui alle moderne tecniche di imaging come la TAC o la risonanza, si verifica un’alterazione dell’elasticità tessutale che non si vede, ma si può rilevare con la palpazione, Ma se non è sufficientemente «matura”» passa inosservata e anche quando inizia a prendere corpo la possibilità di apprezzarla tutto dipende dalle capacità del medico e dall’accessibilità dell’organo in questione: ad esempio il fegato o la mammella sono facili da raggiungere, ma ci sono organi più profondi dove le mani dell’esaminatore non arrivano o lo possono fare solo parzialmente come la prostata o la tiroide.

Diagnosi con ecodoppler

Il più comune strumento diagnostico di primo livello usato per ovviare a questo inconveniente è l’ecodoppler che funziona un po’ come il sonar dei sommergibili: puntando la sua sonda su un organo, dopo aver cosparso la pelle di un gel liquido per evitare bolle d’aria che disturbano la trasmissione, la sonda invia un impulso sonoro, riceve l’eco di rimbalzo e lo trasmette a un sistema computerizzato che, in base al tempo di ritorno, lo trasforma in immagini visibili sul video dell’ecografo. Ma così abbiamo solo un aspetto macroscopico, senza indicazioni sulle intime alterazioni indotte sul tessuto da un danno che ancora non si vede, ma si sta formando. E all’inizio queste alterazioni fanno cambiare solo l’elasticità della trama tessutale dell’organo.

Elastosonografia

Per ovviare a questo problema si è sviluppata da una decina d’anni una metodica chiamata elastosonografia con cui valutare non solo l’aspetto macroscopico di un tessuto, ma anche la sua rigidità («stifness» ). Mentre l’ecodoppler può vedere un danno già manifesto che il medico non può palpare, l’elastosonografia vede quel danno prima del suo manifestarsi dagli effetti che si stanno determinando sui suoi tessuti. Tecnicamente è un’evoluzione dell’ecodoppler perché non valuta solo l’onda di rimbalzo, ma anche quella di propagazione all’interno del tessuto deducendone il grado di elasticità in base al tempo e alle modalità di trasmissione trasversale. un po’ come si fa con le onde telluriche dei terremoti. Se l’onda trasversale si propaga secondo la cosiddetta costante di Young il tessuto è omogeneo e senza alterazioni della trama, ma se incontra un tratto di consistenza diversa la propagazione cambia indicando che c’è qualcosa che non va, anche se dall’esterno l’ecodoppler non rileva nulla di strano.

Tac e risonanza

Anche tecniche più sofisticate come la TAC o la Risonanza magnetica possono rilevare la presenza di una lesione profonda spesso con un elevato grado di precisione circa la sua natura, la prima basandosi sulla densità del segnale dei raggi inviati e la seconda sulla sua intensità, ma anche queste tecniche vedono quando ormai si è già avanti nel danno. Si tratta di esami di secondo livello più invasivi (soprattutto la TAC che usa raggi X), spesso impiegati per approfondire la natura di un danno già manifesto e non quando sta inducendo solo alterazioni dell’elasticità che peraltro nemmeno potrebbero percepire.

Intercettazioni casuali

Può capitare che in alcuni casi fortunati una risonanza eseguita per altri motivi intercetti casualmente un’immagine sospetta che poi si rivela d’esserre,ad esempio, un tumore che ancora non aveva dato segno di sè: sono i cosiddetti accidentaliomi, cioè tumori scoperti accidentalmente. Casi come questo possono salvare la vita, ma nemmeno la risonanza può dare certezza sulla natura del danno scoperto e per dissipare ogni dubbio occorrono ulteriori accertamenti, fino a quelli bioptici. Da questa carenza di base della risonanza e da quella che invece ha sempre avuto il doppler nella valutazione dei tessuti contenuti nella scatola cranica è nata la MRE che, utilizzando l’elastonografia, fonde le capacità di entrambe le tecniche superando le loro carenze di base.

I passi in avanti

L’ecodoppler non è in grado di visualizzare il contenuto della scatola cranica perché le ossa della teca cranica bloccano il passaggio degli stimoli sonori per ragioni di disomogeneità fra l’interfaccia acustica del tessuto duro dell’osso e quella del tessuto molle del parenchima cerebrale. Per valutare il cervello occorre un particolare doppler, chiamato pulsato, che fa passare i suoi impulsi attraverso le finestre naturali del cranio come il fondo dell’orbita oculare o la breccia transforaminale posta dietro la nuca. Ma anche così non riescono a valutare le aree nervose, ma per lo più la circolazione sanguigna intracranica ad esempio in caso di trombosi cerebrale o le raccolte ematiche intracerebrali. La risonanza magnetica, invece, vede con facilità le cellule cerebrali perché non ha problemi ad attraversare la teca cranica, ma, come detto, ci offre solo un’immagine a danno già avvenuto e non del danno in fase di formazione. La MRE, nata dalla fusione fra la risonanza magnetica e l’elastonosografia evoluta dall’ecografia doppler, supera non solo la barriera delle ossa craniche che bloccava il doppler, ma anche l’incapacità della risonanza nel rilevare la «stifness» delle cellule ipotalamiche che stanno andando incontro a gliosi reattiva, preludio all’epilessia mesiale.

 

Fonte: Sanità Informazione

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