Financial Times. Dalla peste alla polio, fino al vaiolo: ecco come finiscono le pandemie?

Articolo del 15 Marzo 2021

A metà del XVII secolo, mentre la Gran Bretagna era in guerra contro le epidemie di vaiolo, peste e tifo, John Graunt impilava nel suo studio faldoni su faldoni di liste parrocchiali dei decessi degli ultimi quarant’anni.

Nel 1666, infatti, Graunt, considerato oggi il fondatore dell’epidemiologia, si era reso conto che i registri della mortalità potevano servire a dimostrare un’idea semplice: che le epidemie finivano non quando scompare la malattia, ma quando i decessi tornano a tassi normali.

Lo stesso criterio, in seguito definito “eccesso di mortalità”, sarebbe stato usato quasi 400 anni da Andrew Pollard, direttore del laboratorio di ricerca sul vaccino Oxford, per analizzare il Covid-19. “La fine della pandemia non è la fine del virus: è la fine del suo impatto insostenibile sui sistemi sanitari”, afferma Pollard. “Se possiamo convertirlo in qualcosa di più innocuo, allora cominceremo a vedere la luce in fondo al tunnel pandemico”.

Con il nuovo aumento delle infezioni dovuto alle varianti più trasmissibili, da un lato, e l’estensione delle restrizioni da parte dei governi, dall’altro, negli ultimi mesi spesso abbiamo pensato in molti che la pandemia di Covid è destinata a non finire mai.

La storia però ci insegna il contrario: le pandemie finiscono eccome, ma raramente hanno un termine netto e preciso. È raro che una malattia venga debellata completamente sulla faccia della terra e, inoltre, le epidemie non finiscono mai in tutto il mondo allo stesso tempo.

L’influenza A, di cui sono in circolazione nel mondo diversi ceppi, è un classico esempio di malattia che, da quando è apparsa per la prima volta nella popolazione umana alla fine del 500, ha raggiunto proporzioni epidemiche, è scomparsa ed è tornata a ondate imprevedibili.

La “spagnola” del 1918-20 è una versione particolarmente virulenta di influenza A. Gli storici della medicina dibattono ancora sul modo in cui sia finita. Alcuni pensano che abbia infettato un numero sufficiente di persone da generare una naturale barriera d’immunità. Altri dicono che è mutata nel tempo ed è diventata meno mortale. In ogni caso, fino al 1922 sono continuati in tutto il mondo violenti accessi di focolai virali.

Il primo vaccino contro l’influenza A risale agli anni 40, ma da allora il virus continua a covare sotto le ceneri. “Cugini” della spagnola hanno causato l’epidemia di influenza asiatica del 1957, della pandemia di influenza di Hong Kong del 1968, e continuano a riaccendersi in focolai ogni anno, anche a un secolo di distanza dalla prima insorgenza. “Se potessimo arrivare a una situazione analoga a quella dell’influenza, per cui viviamo una stagione di coronavirus ogni anno e la maggior parte delle persone sta bene, allora potremo farcela”, afferma Pollard.

Ribaltamento dei piani

Come l’influenza A, anche il Covid-19 probabilmente non verrà mai debellato. Invece è probabile che il rischio percepito si riduca nel tempo. Le pandemie finiscono quando “si trasformano da una cosa che come società riteniamo inaccettabile in una cosa che potenzialmente è letale, ma resta sullo sfondo delle nostre vite”, spiega Erica Charters, professoressa associata di storia della medicina all’Università di Oxford.

Gli scienziati definiscono questo momento come il passaggio dalla pandemia (o epidemia) alla malattia endemica. In un saggio recente, Erica Charters e la ricercatrice indipendente Kristin Heitman ne parlano come del “punto in cui l’urgenza della malattia diminuisce a un livello sufficiente da far spostare l’attenzione pubblica verso le crisi morali e sociali causate dalla malattia”.

Un danno collaterale del Covid-19 sarà, per esempio, l’anno intero di istruzione perso da 168 milioni di bambini in tutto il mondo, secondo stime Unicef. Oppure i 114 milioni di posti di lavoro andati in fumo nel 2020 secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

In alcuni paesi, l’attenzione si sta già spostando in modo significativo verso questi problemi, che rischiano di diventare il principale problema di interesse pubblico anche prima che i governi o l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarino ufficialmente “finita” la pandemia.

L’eccezione del vaiolo

Il vaiolo è una delle poche pandemie ad esser stata completamente debellata. Ma gli epidemiologi sottolineano spesso che questa eccezione deve fungere anche da monito.

La campagna per sradicare il vaiolo, malattia che ha afflitto l’umanità per millenni ed è stata trovata persino nei cadaveri mummificati dei faraoni egiziani, è iniziata nel 1966 e si è conclusa in Somalia nel 1979. “Quello che il vaiolo ci insegna è che un vaccino da solo non sradica una malattia”, ammonisce Alexandre White, ricercatore di storia della medicina alla Johns Hopkins University. Il vaccino contro il vaiolo è stato sviluppato per la prima volta in Gran Bretagna nel XVIII secolo, ma i medici occidentali per lo più non hanno avuto interesse a distribuire le dosi anche negli angoli più remoti del globo, finché l’aumento dei viaggi non ha minacciato di riportare in auge il pericolo.

Il vaiolo ha ucciso 500 milioni di persone solo nel XX secolo. La vaccinazione alla fine ha avuto successo, ma non sono mancate le ombre di una campagna vaccinale che, nell’ultimo periodo, è diventata coercitiva e violenta.

Nelle sue memorie Stanley Music, epidemiologo dell’Oms inviato nel 1973 in Bangladesh, dove alcune persone rifiutavano ancora l’iniezione scrive: “Spesso prendevamo a forza le donne e i bambini da sotto i letti, da dietro le porte, da dentro le latrine. Se trovavamo le porte chiuse a chiave le sfondavamo e li vaccinavamo”.

Molta della reticenza per il vaccino anti-Covid che si riscontra oggi nelle comunità nere, asiatiche e delle minoranze etniche in generale secondo alcuni esperti si può far risalire alle campagne mediche invasive e spesso brutali del passato. “I vaccini sono certamente un’arma importante contro la diffusione delle malattie infettive, ma vanno anche considerati i rischi di non riuscire a realizzare campagne vaccinali ‘compassionevoli’”, conclude il professor White.

È finita, ma per chi?

La storia dimostra che le pandemie non sono mai cessate per tutti quanti allo stesso tempo. In Europa, America e Australia la poliomielite è ormai un lontano ricordo, ma resta invece un male ostinato in alcune zone dell’Africa e dell’Asia meridionale. “Uno dei modi in cui una pandemia può finire è diventare il problema di qualcun altro”, sostiene Dora Vargha, professoressa emerita di medical humanities (“medicina e scienze umane”) all’Università di Exeter.

La prima grande epidemia di polio è stata documentata nel 1894 negli Stati Uniti e ha raggiunto il picco nel 1952, quando si contagiarono quasi 60 mila bambini, migliaia dei quali rimasero paralizzati e 3000 morirono.

Il vaccino per la polio fu messo a punto nel 1955 dai virologi americani Thomas Francis e Jonas Salk (quest’ultimo creatore del vaccino antinfluenzale) e nel 1979 il virus era stato completamente sradicato negli Stati Uniti.

Tra gli anni 60 e 70 analoghe campagne vaccinali sono state portate avanti in Europa e nell’Unione Sovietica, ma nel sud del mondo la lotta alla polio è stata molto meno efficace. L’Africa è stata dichiarata finalmente libera dalla polio ad agosto scorso, ma a novembre il Sud Sudan ha segnalato nuovi casi di derivazione vaccinale: una rara forma della malattia che si verifica quando il virus indebolito usato nel vaccino muta.

Per Vargha, la polio ha dimostrato che “è molto importante l’uniformità del lancio e della distribuzione di un vaccino”, oltre alla necessità di infrastrutture sanitarie e investimenti adeguati per far sì che una campagna abbia successo.

Contro il Covid-19, questa responsabilità è affidata principalmente al programma Covax, sostenuto dall’Oms, che si propone di garantire un accesso ai vaccini a tutti paesi del mondo. Il progetto è progredito più lentamente rispetto alle speranze di molti, ma il mese scorso sono state consegnate le prime dosi di vaccino AstraZeneca a una manciata di nazioni africane.

Se i vaccini non sono l’unica soluzione, non dovrebbero neanche essere l’unica eredità di una pandemia, afferma Thomas Bollyky, membro del Council on Foreign Relations di Washington, nel suo libro Plagues and the Paradox of Progress.

Bollyky ricorda che pandemie come il colera e la febbre gialla, che rischiavano di colpire le città degli Stati Uniti ogni 10 o 15 anni sono lentamente scomparse non grazie alle vaccinazioni, ma agli investimenti in strutture sanitarie e igiene.

Se nei primi mesi la pandemia di Covid-19 ha colpito duramente alcuni paesi è stato anche perché le loro infrastrutture sanitarie pubbliche erano già sovraccariche. Anche l’Oms si trovava in una posizione difficile per far fronte alla crisi, essendo costretto a dipendere dalle organizzazioni filantropiche e dal settore privato per colmare la mancanza di fondi erogati dagli Stati.

Le pandemie tendono a portare a galla tutti i fallimenti degli investimenti nel sistema sanitario e impongono ai governi cambiamenti radicali, se vogliono assicurarsi che tornino più. Lo chiarisce Bollyky nel suo saggio: “La domanda è: otterremo anche questa volta le stesse riforme sociali che hanno portato alla fine delle pandemie del passato?”

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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