Anticorpi monoclonali, un po’ come l’acqua di Lourdes
Articolo del 10 Febbraio 2021
Si chiamano monoclonali gli anticorpi prodotti con tecniche di DNA ricombinante a partire da un unico tipo di linfociti prelevato dal plasma di un soggetto guarito da Covid-19. Così ingegnerizzati, gli anticorpi si specializzano su quel particolare tipo di antigene (la proteina spike), dando una risposta immunitaria molto forte (passiva e non attiva come col vaccino) verso il patogeno che la veicola. La protezione può durare settimane o anche mesi.
Gli anticorpi monoclonali (mAb) attualmente in commercio sono bamlanivimab (di Eli Lilly) e il cocktail di casirivimab e imdevimab (di Regeneron); il National Institute of Allergy and Infectious Diseases ha da poco annunciato che sta sponsorizzando uno studio clinico di fase II / III per esaminare due ulteriori anticorpi sperimentali, BRII-196 e BRII-198. Nel mondo, sono una settantina gli anticorpi monoclonali contro SARS-CoV-2 sviluppati e sotto indagine, per tacere delle molte ricerche che stanno valutando l’utilizzo contro Covid-19 di mAb già in commercio con indicazioni diverse.
Per le prime due terapie monoclonali citate, la Food and Drug Administration in novembre ha dato l’autorizzazione all’uso di emergenza (EUA) in pazienti sia adulti sia pediatrici (pur senza riscontri in questa particolare età) in una fase precoce di malattia, ma a rischio di sviluppare Covid-19 grave. Questo gruppo include le persone di età ≥65 anni con IMC ≥35, insufficienza renale cronica, diabete, immunodepressione o di età ≥55 anni cardiopatici, ipertesi o con pneumopatie croniche o, ancora, di età tra i 12 e i 17 anni con comorbilità che renderebbero grave l’evoluzione di Covid-19. A tutt’oggi, si tratta dell’unico presidio inteso a diminuire il ricorso all’ospedale. L’EUA è stata rilasciata sulla sola base dei dati della sperimentazione di fase II, condotta su 465 pazienti per bamlanivimab e su 799 per la terapia di combinazione casirivimab/imdevimab, solo la metà dei quali, ovviamente, ha effettivamente assunto gli mAb.
Questi studi, molti dei quali pubblicati in assenza di peer-review, hanno dimostrato, per entrambe le terapie, confrontate con placebo, una riduzione dei ricoveri e degli accessi al pronto soccorso per Covid-19 nei 28 giorni successivi al trattamento del 3% vs il 10 e il 9 %, rispettivamente e, forse, una modesta accelerazione dell’eliminazione del virus o diminuzione della carica virale; non è stata notata nessuna influenza sulla mortalità. Gli studi di fase III sono ancora in corso.
Le National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine statunitense, un organismo che si pone, tra gli altri, l’obiettivo dell’equità nell’allocazione delle risorse sanitarie, hanno pubblicato un documento per facilitare l’uso efficace e precoce degli anticorpi monoclonali, che prende le mosse da una constatazione singolare: questi farmaci, pur autorizzati senza indugi e senza indugi sperimentati in corpore vivi (di un presidente, nientemeno) e a dispetto di una potenziale platea molto ampia, sono stati finora poco utilizzati nella pratica clinica anti Covid-19. Tre quarti dei cicli terapeutici con monoclonali messi a disposizione degli ospedali e di siti appositamente individuati, negli USA, sono ancora disponibili e la loro richiesta è molto variabile, da Stato a Stato e da ospedale e ospedale.
Secondo i ricercatori, i motivi di questo atteggiamento esitante di pubblico e operatori sanitari vanno ricercati (oltre che nei rimborsi irrisori) nella mancanza di un’infrastruttura pianificata per somministrarli (richiedono un’infusione endovenosa e deve essere subito disponibile il trattamento di una eventuale crisi anafilattica) e nell’incertezza dei medici riguardo alla definizione clinica del paziente affetto da Covid-19 in forma lieve o moderata ma ad alto rischio di progressione e, quindi, candidato a usare i monoclonali.
Sulle richieste inferiori all’atteso dei monoclonali pesa, soprattutto, la non convergenza degli organismi di esperti né sulla loro efficacia (i benefici riscontrati sono sicuramente funzione del rischio di base per età, obesità, comorbilità, ma non altrettanto sicuramente funzione della terapia adottata), né sulla dose più opportuna in rapporto alle caratteristiche del paziente. L’Infectious Diseases Society of America si è espressa contro l‘uso di routine extra ospedaliero e il National Institutes of Health COVID-19 Treatment Guidelines Panel ha sottolineato che, non essendoci dati sufficienti né pro né contro i mAb, è imprescindibile andare oltre il semplice consenso informato del paziente, per arrivare con lui a una vera e propria condivisione della responsabilità terapeutica. Insomma, a essere ottimisti, gli anticorpi monoclonali sono, per ora, una terapia potenzialmente utile (ma certamente non “salvavita”), purché si trovino i pazienti giusti cui somministrarli nel momento giusto; l’individuazione del bersaglio, della tempistica e della logistica è un freno non irrilevante al loro impiego.
Le National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine, per di più, sottolineano che lo stesso ricorso alla procedura autorizzativa d’urgenza ha più di un risvolto indesiderato: per esempio, avere esteso ai primi dieci giorni dall’esordio dei sintomi la somministrazione degli anticorpi monoclonali (probabilmente per ovviare alla difficoltà delle persone di farsi visitare ai primissimi sintomi), sovverte il razionale di questi principi attivi, che dovrebbero entrare in azione prima che lo faccia il sistema immunitario del malato, innescando la cascata citochinica. Inoltre, dare libero accesso, al di fuori dei trial, a un farmaco con efficacia e sicurezza non ancora ben delineate, di norma impedisce la raccolta formale e metodica dei dati al riguardo, come è già capitato per il plasma e per l’idrossiclorochina.
Il giorno 3 febbraio, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA ha dato il via libera condizionale, in Italia, agli anticorpi monoclonali di Regeneron e di Eli Lilly, come da legge 648/1996 (che prevede l’approvazione di medicinali in corso di sperimentazione clinica o utilizzati in altre nazioni in assenza di un’alternativa terapeutica valida) con le stesse indicazioni poste negli USA. Come di solito accade da queste parti, l’annuncio è stato accolto da toni trionfalistici e/o accusatori sul presunto ritardo del provvedimento, ma sono generalmente mancati i necessari rilevi sui punti critici della terapia, primo fra tutti la non idoneità di moltissime strutture territoriali a praticarla.
Fonte: Scienza in Rete