Anticorpi ribelli all’origine delle forme gravi di covid?
Articolo del 08 Febbraio 2021
Si fa strada l’ipotesi che nei casi severi di covid abbiano un ruolo determinante gli autoanticorpi, che si rivolgono verso il nemico sbagliato.
A più di un anno dall’esordio della pandemia, attorno alla CoViD-19 aleggiano ancora questioni irrisolte. Perché alcune persone si ammalano in modo più grave di altre? Che meccanismo c’è, all’origine della condizione sistemica che affligge chi soffre di long covid? Per quale motivo il danno polmonare può comparire quando ormai l’organismo sembra aver superato l’infezione?
SOTTO ATTACCO. Secondo un filone interessante di studi, almeno alcune di queste questioni potrebbero essere spiegate da meccanismi autoimmuni, fenomeni in cui gli anticorpi, invece di prendersela con i patogeni esterni, attaccano invece l’organismo.
Di una reazione immunitaria eccessiva – la famosa tempesta di citochine, proteine che regolano i meccanismi difensivi del corpo umano – si era parlato già a inizio pandemia. Ma un altro lato della medaglia dei meccanismi autoimmuni riguarda il ruolo meno approfondito degli autoanticorpi, anticorpi finiti fuori controllo che attaccano alcune componenti delle difese immunitarie o se la prendono con specifiche proteine in alcuni organi, a cominciare dal cuore. Se il danno delle tempeste di citochine è sistemico e acuto, quello degli autoanticorpi è mirato a particolari tessuti ed esteso nel tempo.
Anche le persone sane possono produrre autoanticorpi, ma in genere non in quantità tali da recare un danno all’organismo. In alcuni casi però, gli autoanticorpi possono avere un ruolo nel progredire delle infezioni, inclusa la CoViD-19. Come spiegato in un lungo articolo su Nature, alcune persone potrebbero essere predisposte a produrre autoanticorpi che possono andare fuori controllo durante l’infezione. In alternativa, potrebbe essere la covid a indurre la produzione di autoanticorpi in individui precedentemente sani.
PRESENZA SOSPETTA. Uno studio pubblicato su Science dalla Rockefeller University (New York) ha trovato che oltre il 10% di 987 pazienti che avevano contratto una grave polmonite da covid presentava autoanticorpi che prendevano di mira gli interferoni di tipo 1, molecole incaricate di potenziare la risposta immunitaria contro patogeni esterni. La scoperta è interessante perché questi autoanticorpi, che in alcune persone sono presenti già prima del contagio da coronavirus, sono rari nella popolazione in generale ed erano praticamente assenti nel gruppo di controllo.
Secondo gli autori dello studio è forse per questo motivo che alcune persone anche molto giovani si ammalano seriamente di covid. Questi autoanticorpi sembrano essere più spesso presenti negli uomini, che incorrono incorrono più di frequente in forme gravi dell’infezione.
QUESTIONE DI GENERE. Ora, lo stesso gruppo di ricerca guidato da Jean-Laurent Casanova sta seguendo 40.000 pazienti per capire meglio il nesso tra la presenza di autoanticorpi preesistenti, l’età, il genere, le origini etniche e l’incidenza di covid grave. Le prime evidenze scientifiche del fatto che esistano autoanticorpi capaci di ostacolare l’attività degli interferoni, e che questi possano costituire per chi li ospita un maggiore pericolo di infezioni, risalgono a metà degli anni ’80, ma la pandemia ha riportato il tema all’attualità.
Ma può essere invece che sia il SARS-CoV-2 a stimolare la produzione di autoanticorpi nocivi? Lo studio di un altro gruppo di ricerca, guidato dagli scienziati della Scuola di Medicina dell’Università di Yale, farebbe pensare di sì. Dopo aver testato la presenza di vari tipi di autoanticorpi in 194 pazienti con covid di diversa gravità e del personale ospedaliero, gli scienziati hanno concluso che le persone infette avevano una più alta prevalenza di autoanticorpi rispetto alle non contagiate. Alcuni anticorpi attaccavano i linfociti B, altri gli interferoni. In alcuni dei pazienti positivi, questi autoanticorpi sembravano essersi rivolti contro vasi sanguigni, cuore e cervello, organi e tessuti tra i più danneggiati dall’attacco del virus.
ALTRI INDIZI CLINICI. Uno studio pubblicato a novembre ha trovato autoanticorpi diretti contro i fosfolipidi nel 52% di 172 persone con covid ricoverate in ospedale. Alcuni fosfolipidi hanno un ruolo importante nel controllo della coagulazione sanguigna, messa fuori uso nelle forme gravi di covid.
Una ricerca non ancora pubblicata in peer review e coordinata da David Lee, medico di pronto soccorso presso la New York University (NYU) Langone Health, ha analizzato i campioni di siero (la porzione liquida del sangue) di 86 persone ricoverate in ospedale per covid. Quando hanno cercato autoanticorpi diretti contro una proteina – la annessina A2 – che mantiene stabili le membrane cellulari e integri i sottili vasi sanguigni nei polmoni, gli scienziati ne hanno trovata in concentrazioni più elevate della media nei pazienti che erano deceduti per covid, rispetto a quelli in condizioni non critiche.
La teoria della produzione di autoanticorpi innescata dall’infezione è più difficile da dimostrare, perché richiederebbe maggiori controlli del sangue anche prima che un paziente venga contagiato (per riuscire a cogliere la differenza). E tuttavia, se si rivelasse fondata, potrebbe spiegare come mai alcuni sintomi gravi di covid, come i danni polmonari, compaiano anche dopo un paio di settimane dall’esordio: sarebbero quindi meccanismi autoimmuni, e non tanto il virus, a compiere i danni peggiori. Non a caso i patologi che esaminano i tessuti post mortem trovano spesso i segni del danno cellulare ma non molte tracce del SARS-CoV-2.
IN BUONA COMPAGNIA. Non sarebbe il primo esempio di infezione all’origine di reazioni autoimmuni. Il parassita della malaria può scatenare la produzione di autoanticorpi che iniziano ad attaccare i globuli rossi e portare all’anemia (una concentrazione insufficiente di emoglobina nel sangue). Mentre il virus di Epstein-Barr, all’origine della mononucleosi, è stato collegato alla genesi di molte malattie autoimmuni, a partire dal lupus (una condizione cronica causata da un’iperattivazione del sistema immunitario).
Risalire a una causa definita, quando si parla di reazioni autoimmuni, è però sempre complicato. Alcune persone potrebbero avere una predisposizione genetica a sviluppare una malattia autoimmune in risposta a un’infezione. Ma i patogeni potrebbero stimolare nel senso sbagliato il sistema immunitario anche per via della loro somiglianza ad alcune componenti delle cellule umane (mimetismo molecolare). Un’altra teoria è che l’infiammazione innescata dall’infezione spinga il sistema immunitario a vedere il contenuto delle cellule distrutte come “estraneo”, da eliminare; e a creare autoanticorpi spazzini contro quei frammenti cellulari.
RICADUTE SULLE CURE. Se fosse l’autoimmunità a causare i più severi sintomi della covid, allora si potrebbero studiare strategie di prevenzione o di cura più mirati: per esempio, predisponendo prelievi del sangue per scovare autoanticorpi preesistenti che pongano a rischio di forme gravi. Sul fronte delle cure, si stanno già sperimentando supplementi di interferone beta, non attaccabili dal sistema immunitario, da somministrare ai pazienti covid.
Mentre per interventi più sistemici contro i danni multiorgano si sta cercando di capire se steroidi immunosoppressori come il desametasone, o il tocilizumab e il sarilumbab (farmaci contro l’artrite reumatoide) possano essere sfruttati per calmare il sistema immunitario impazzito per covid. Il punto è che questi farmaci vanno somministrati studiando i tempi con attenzione, per non interferire con la naturale battaglia del corpo contro il virus.
Capire se la covid possa invece innescare meccanismi autoimmuni sarebbe prezioso per far luce sulle cause del long covid, e migliorare la qualità di vita di chi ne soffre.
Fonte: Focus