Articolo del 07 Marzo 2022
Alcuni composti presenti nei vegetali interagiscono con l’enzima responsabile del legame tra lo iodio e l’ormone tiroideo, la tireoperossidasi (TPO). Essi aumentano il fabbisogno di iodio se consumati moderatamente e danneggiano la tiroide in quantità elevate.
L’esempio più noto è dato dai glucosinolati (composti glucosidici contenti zolfo) delle Brassicaceae. L’esposizione ripetuta attraverso l’alimentazione può determinare effetti indesiderati, poiché queste molecole sono precursori di vari composti gozzigeni.
Si trovano in:
verza, broccoli, cavolfiori, cavoli, cavolini di Bruxelles, rucola, rape, senape, crescione, ravanelli…
ortaggi che la selezione naturale ha protetto contro l’attacco di voraci erbivori grazie ai glucosinolati.
Motivo per cui le molecole sono particolarmente attive se si mangiano gli ortaggi crudi.
Le conseguenze negative sulla salute variano notevolmente a seconda del tipo di cottura e dei composti che si formano (isotiocianati, nitrili, indoli). Ma pure il microbio ma intestinale, i processi metabolici individuali, il terreno, le pratiche agricole e le condizioni ambientali vi svolgono un ruolo che differenzia il risultato del loro consumo.
La fermentazione distrugge gli indoli ma favorisce la formazione di tiocianati. Nonostante ciò i crauti fermentati con la
loro ricchezza in micronutrienti, enzimi e fermenti rimangono un importante contributo alimentare. E certamente con una
tiroide in perfetta salute e sufficienti riserve di iodio le Brassicacea e non creano disturbi.
Anzi.
Si parla addirittura di effetti antitumorali grazie ai potenti attivatori dell’enzima glutatione S-transferasi. Questo “dimorfismo comportamentale” delle molecole farmacologicamente attive una volta ingerite non è per niente insolito: l’uomo, lungo l’evoluzione, ha imparato a giovarsi del consumo di alcune armi biochimiche prodotte dalle piante.
Cibo e medicina erano sempre un tutt’uno.
Eppure un consumo eccessivo di Brassicaceae non è consigliabile: è stato infatti associato al cancro alla tiroide. Indubbiamente, è la dose a fare la differenza tra medicina e veleno. E, come pare, ci troviamo nel bel mezzo di una lotta evolutiva non ancora conclusa tra uomo e Brassicaceae!
Già 1800 anni fa il celebre medico Galeno ritenne che il cavolo non fosse «un cibo pieno di succhi benefici». Consigliò di cuocerlo due volte e di buttare via la prima acqua di cottura. In effetti il mondo vegetale è pieno di composti tossici a elevate concentrazioni, ma benefici se introdotti in quantità moderate.
Ortaggi i cui numerosi precursori possono essere convertiti in una serie variabile di altri composti. Chi ha problemi alla tiroide dovrebbe sempre valutare il proprio caso. Per le persone ipotiroidee sarà meglio consumare questi ortaggi solamente cotti bene, lontano dagli ormoni prescritti (almeno quattro ore) e senza esagerare con le quantità.
La bollitura per trenta minuti in acqua a fiamma alta distrugge gli elementi gozzigeni nelle Brassicaceae al 90%, ma non lo fa la cottura a microonde o al vapore.
Probabilmente sarà il cavolo nero quello favorito visto i suoi tempi lunghi di cottura. La goitrina della senape invece è particolarmente resistente. Un discorso simile riguarda gli isoflavoni della soia: anche loro inibiscono l’enzima TPO, in particolare la soia non fermen-tata. Pare che i potenziali effetti della soia – si tratta di un potente fitoestrogeno, gozzigeno e inibitore delle proteasi – siano più estesi di quanto si pensava precedentemente.
Ad esempio, nelle persone cresciute con le pappe a base di soia la prevalenza alle malattie autoimmuni in età adulta è più che raddoppiata. Se siete ipotiroidei e disponete di sufficienti riserve di iodio, mangiare di tanto in tanto la soia – meglio se fermentata (come miso, natto, tempeh) e assunta lontano dagli ormoni prescritti – probabilmente non vi causerà problemi.
Però c’è un però: conoscete le vostre riserve di iodio e sapete esattamente quanta soia consumate?