Come si cura Covid a domicilio?
Articolo del 17 Novembre 2020
In caso di malattia lieve, le cure domiciliari per Covid-19 sono essenziali, sia per evitare lo stress del ricovero sia per evitare di pesare troppo sugli ospedali. Ma quali farmaci sono impiegati, oggi per le cure a casa? Quando e come vi può essere la visita del medico?
Con l’occasione del contagio di qualche persona nota, spesso i media hanno usato le espressioni “cure tempestive” o “ricovero per tempo prima di un aggravamento”, che hanno fatto credere al pubblico che alcune cure, fatte precocemente, possano impedire a Covid-19 di peggiorare o, quanto meno, di sviluppare le complicanze che coinvolgono molteplici tessuti e organi e che determinano una prognosi infausta.
Tali terapie, in realtà, non esistono ancora: potrebbero costituire un’eccezione (ma va aggiunto un “forse”, perché non solo sono ignoti gli effetti a distanza, ma non sono nemmeno conclusi gli studi pre-autorizzazione al commercio) i cocktail di anticorpi monoclonali a lunga durata d’azione, d’altronde inarrivabili, se non si abita alla Casa Bianca.
I fattori che influenzano il decorso della malattia
L’infezione da SARS-CoV-2 porta a una malattia la cui presentazione è proteiforme, variando da inapparente a una sintomatologia simile a quella di un raffreddore comune, fino alla polmonite con grave difficoltà respiratoria, potenzialmente fatale. Se le cure “tempestive” non fanno la differenza, quali sono, dunque, i fattori che fanno scivolare un paziente dal crinale della malattia verso la guarigione o il peggioramento? Dai numerosissimi studi condotti in oltre dieci mesi di epidemia, emergono tre ordini di cause, genetiche, metaboliche e anagrafiche, con l’età avanzata che fa da sintesi delle disfunzioni immunitarie, metaboliche e vascolari (importantissima l’ipertensione) accumulate nella vita.
Tra i possibili determinanti genetici di una maggiore suscettibilità all’infezione o di una maggiore virulenza di SARS-CoV-2, ci sono le 32 variabili di codifica di ACE, qualcuna delle quali potrebbe essere importante nel facilitare o meno il legame della proteina spike alla cellula umana (ma non è ancora stata individuata). Anche la risposta infiammatoria dell’ospite al virus, con la maggiore o minore produzione di citochine (fondamentali nello sviluppo delle complicanze), è influenzata forse dall’ambiente, forse dal microbioma, ma certamente dalla genetica dell’ospite, come dimostrato dagli studi dell’Human Functional Genomics Project. L’importanza dei fattori metabolici è resa evidente dalla maggior propensione alla prognosi infausta dei pazienti con diabete e obesità, condizioni le cui vie patogenetiche finiscono comunque per convergere sulle disfunzioni immunitarie e vascolari.
Un recente editoriale scritto dagli infettivologi e immunologi australiani GW. Waterer e J. Rello su Infectious Diseases and Therapy, reca nel titolo (Not one size fit all) la principale esigenza legata al trattamento della Covid-19, ossia un suo confezionamento “su misura”, che tenga conto dello stadio di malattia, di età e assetto metabolico del paziente e del dosaggio più opportuno (efficace/sicuro) del farmaco somministrato: le revisioni della letteratura scientifica finora condotte, invece, valutano una pletora di studi molto eterogenei per quanto riguarda questi parametri e sono perciò di utilità assai incerta nell’indicare un protocollo di cure extra-ospedaliere per la malattia lieve e moderata. L’editoriale australiano invoca un approccio a Covid-19 di tipo “teranostico”, che integri, cioè, l’approfondimento diagnostico con lo specifico intervento terapeutico.
È sicuramente positivo che tutte le idee derivate dalle osservazioni in corso di epidemia siano state condivise a livello internazionale, spesso con lo strumento del preprint; tuttavia, la criticità di gran pare degli studi fin qui pubblicati è che i loro dati incontrollati non provano nessi di causalità. Più grandi sono i numeri, poi, più imprecisa è la definizione dello stadio di malattia e delle eventuali condizioni morbose concomitanti, le cui manifestazioni cliniche e rilevanza possono essere molto eterogenee: “Cosa s’intende per malattia cardiaca cronica, un’ipertensione lieve e ben controllata o una grave cardiomiopatia?”, si chiedono Bernd Sebastian Kamps e Christian Hoffmann nel loro textbook COVID Reference.
Cure domiciliari e livelli di gravità
Fatta questa necessaria premessa, è comunque indubbio che le cure domiciliari siano essenziali, sia per evitare a pazienti non in situazione di gravità lo stress di un ricovero, sia per evitare agli ospedali di essere sommersi da richieste indiscriminate: il primo triage del paziente con sospetta infezione da SARS-CoV-2 e la valutazione della gravità clinica del caso non dovrebbero essere demandati al pronto soccorso, ma rientrano nei compiti della medicina territoriale e, in particolare, dei medici di famiglia. I medici di medicina generale, peraltro, non sono tenuti a valutare di persona i sintomi sospetti (devono, anzi, evitarlo: per non dimenticare quanti sono morti per contagio, si può consultarne l’elenco sul portale della FNOMCeO, Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri); il giudizio clinico può derivare da un’intervista telefonica o da un videoconsulto.
In caso di reale necessità, una visita può essere effettuata, se sono disponibili i DPI (dispositivi di protezione individuale) imprescindibili: mascherina FFP2/FFP3, tuta, camice monouso, soprascarpe, guanti e visiera. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta segnaleranno il caso sospetto Covid-19 all’ATS di competenza attraverso procedure informatiche specifiche e contestualmente ne disporranno l’isolamento fiduciario fino all’ esito del tampone diagnostico. Né la presenza né l’assenza di qualche sintomo o segno sono patognomoniche per Covid-19; tuttavia, si può a buona ragione sospettare un’infezione da SARS-CoV-2 se il quadro sindromico iniziale comprende febbre con andamento continuo o intermittente, tosse secca, astenia, mialgie e artralgie e disturbi gastrointestinali. I sintomi non respiratori possono precedere quelli respiratori e la febbre.
L’OMS ha elaborato i criteri che definiscono (negli adulti e negli adolescenti) quattro livelli di gravità della Covid-19:
- malattia lieve, in cui non c’è polmonite o ipossia, la febbre dura poco o manca e sono prevalenti il mal di testa e di gola, la congestione nasale, la tosse e la perdita dell’olfatto. A volte vi sono diarrea, nausea o vomito, spossatezza, mancanza di appetito, modificazioni cutanee specie alle estremità, perdita del gusto e/o dell’olfatto
- malattia moderata, in cui vi è la polmonite, sospettata clinicamente e/o confermata dall’imaging, ma senza desaturazione di ossigeno (SpO2 ≥90%, in aria ambiente, a livello del mare); nei bambini, la polmonite è segnalata dalla tachipnea (≥40-60 atti respiratori al minuto)
- malattia grave, in cui la polmonite è associata a SpO2 <90%; nei bambini, vi sono colorito bluastro del volto, letargia, convulsioni, difficoltà ad alimentarsi
- malattia critica, in cui al distress respiratorio acuto si aggiungono sepsi o shock settico, embolia polmonare, sindrome coronarica acuta, ictus, delirium
I campanelli d’allarme (red flags) che devono indurre a ricoverare subito il paziente sono la febbre alta che non cessa, la difficoltà a respirare (o un valore basso al pulsiossimetro), un dolore o senso di peso al petto, una colorazione blu delle labbra, il racconto di sudore freddo e pelle di colorito screziato, la confusione mentale, la difficoltà ad alzarsi, l’oliguria, il sangue nell’escreato. I pazienti con malattia definibile lieve possono, invece, restare al proprio domicilio, in isolamento per almeno dieci giorni dall’insorgenza dei sintomi, purché assistiti da qualcuno in grado badare alla loro alimentazione e alla sorveglianza di un eventuale peggioramento.
Secondo la SIMGG (Società italiana medici di medicina generale) i criteri per stabilire che un paziente può rimanere al proprio domicilio sono febbre non elevata con tosse, vago malessere generale, rinorrea, mal di gola, ma in assenza di confusione o letargia, ipotensione arteriosa, vomito o diarrea incoercibili e, soprattutto, in assenza di dispnea: è importante il monitoraggio della saturazione periferica di ossigeno di base, accettabile fino al 95% e, dopo sforzo (test del cammino per 6 minuti) fino al 93%. Chi soffre di bronchite cronica può avere valori più bassi, ma non di molto, per non rischiare l’ipossia critica. Nella decisione di tenere il paziente a casa vanno valutati il buon compenso di eventuali patologie sottostanti e l’età: sopra gli 80 anni il ricovero è fortemente raccomandato, mentre, per le età inferiori il giudizio, più che anagrafico, deve essere clinico. La permanenza al domicilio non può prescindere dalla garanzia di una linea di comunicazione diretta con il medico o con un operatore sanitario (infermiere di studio) fino a completa risoluzione del quadro clinico. Le stesse considerazioni valgono per il ritorno a casa dall’ospedale a quadro Covid migliorato o stabilizzato.
Quali farmaci?
I farmaci a disposizione per le cure domiciliari sono quelli che controllano i sintomi come:
la febbre e i dolori diffusi: paracetamolo (max 4 g/dì) e ibuprofene alla dose minima efficace per il minor tempo possibile. Meglio evitare i gastroprotettori cosiddetti inibitori di pompa (PPI) che sembrano facilitare l’infezione con SARS-CoV-2 e peggiorare il decorso della malattia (ma non lo fanno gli H2 antagonisti, come ranitidina ecc.)
la tosse: un cucchiaino di miele (dopo l’anno d‘età) seda la tosse meglio dei farmaci, come hanno dimostrato a Oxford. Il paziente non deve stare sdraiato a lungo supino, sia per non comprimere i polmoni (meglio dormire a pancia sotto) sia per evitare la stasi venosa agli arti inferiori
il malessere generale: si combatte con un’alimentazione proteica e vitaminica (frutta e verdura) e con un’idratazione adeguata, ma non eccessiva, perché troppi liquidi peggiorano l’ossigenazione.
Vanno areati spesso i locali dove soggiorna. Sono fortemente sconsigliati:
- l’aerosolterapia, perché aumenta il rischio di diffusione aerea del virus per nebulizzazione
- i cortisonici per via orale (a meno che consigliati in dimissione ospedaliera)
- gli antibiotici, se non richiesti da altre condizioni o per proseguire una terapia in corso
La prescrizione empirica di antibiotici contro un’evenienza di sovrainfezioni batteriche può essere considerata nei pazienti >65 anni e in quelli <5. Le terapie per le eventuali patologie croniche sottostanti devono essere proseguite. Per quanto riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa, alcuni esperti hanno ipotizzato che gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II, i cosiddetti sartani, possano portare a un iper-espressione di ACE2, il cavallo di Troia del virus, e quindi facilitarne l’ingresso. Poiché i risultati dei vari studi in merito sono contraddittori, dimostrando ora l’ininfluenza sul rischio d’infezione, ora l’aumento del rischio nei più anziani, ora addirittura una diminuzione del rischio infettivo, il NICE (National Institute for Health and Care Excellence), poi seguito da EMA e AIFA, ha finito per raccomandare di non sospendere le terapie con sartani in atto, privilegiando di controllare bene l’ipertensione, che sicuramente espone i pazienti a una forma più grave di Covid-19.
Vale la pena di considerare con maggiore dettaglio tre classi di farmaci che potrebbero essere usati nell’assistenza domiciliare dei casi lievi o moderati oppure in dimissione ospedaliera: sono i cortisonici, gli anticoagulanti e gli antibiotici.
Considerazioni sui cortisonici
Poiché il decorso dell’infezione ha una fase di replicazione virale, seguita dalla fase di risposta infiammatoria del sistema immunitario, è probabile che il beneficio dei corticosteroidi dipenda dalla tempistica del loro impiego e dallo stadio della malattia, oltre che dalla dose somministrata e da eventuali caratteristiche individuali dei pazienti. L’OMS raccomanda con forza la terapia corticosteroidea sistemica con desametasone e idrocortisone a basse dosi negli adulti con malattia grave o critica. L’EMA (European Medicines Agency) in Europa e i NIH (National Institutes of Health) negli Stati Uniti raccomandano l’uso dei corticosteroidi solo ai pazienti in ossigenoterapia. Le dosi consigliate dei vari cortisonici (una volta al giorno per un massimo di 10 giorni) sono 6 mg per desametasone, 32 mg per metilprednisolone, 40 mg per prednisone e 160 mg per idrocortisone: dosaggi più alti prescritti in Cina in epidemie influenzali precedenti erano associati a superinfezioni e aumento della mortalità.
Nello studio randomizzato controllato RECOVERY (Randomised Evaluation of COVid-19 thERapY) è stato escluso un beneficio dei cortisonici nei pazienti che cominciano la terapia prima di aver bisogno di un supplemento di ossigeno e nei pazienti ultrasettantenni. Sulla stessa posizione sono i risultati di uno studio retrospettivo cinese di settembre su quasi 500 pazienti ricoverati con polmonite non grave, senza insufficienza respiratoria: la somministrazione precoce di corticosteroidi si associava a una maggior durata della febbre, della viremia e del ricovero e a un maggior rischio di peggioramento e di necessità di antibiotici.
Considerazioni sugli anticoagulanti
I ricorrenti focolai di gravi infezioni virali umane (influenza A, MERS, SARS) hanno convinto gli studiosi che la strategia terapeutica diretta contro le proteine virali presenta molti svantaggi, non ultimo dei quali è il rapido sviluppo di varianti virali resistenti (specie nei virus a RNA) e dovrebbe essere sostituita da una strategia diretta a regolare la risposta trombo-infiammatoria dell’ospite.
Due oncoematologi dell’Università di Ankara hanno pubblicato su ScienceDirect un’interessante ipotesi: il legame della proteina spike al recettore ACE2 (enzima di conversione dell’angiontensina) della cellula dell’ospite è solo il primo passo dell’infezione da parte del virus: la fusione con la membrana della cellula infettata ha poi bisogno dell’azione delle proteasi dell’ospite, tra cui vi sono le catepsine, le proteasi cell surface transmembrane protease/serine (TMPRSS), la furina (altamente espressa nei polmoni), la tripsina e il fattore Xa (fattore decimo attivato), che fa parte della cascata della coagulazione. Studi in vitro hanno dimostrato che l’inibizione del fattore Xa può diminuire l’infettività virale: fattore Xa, furina e a catepsina potrebbero, quindi, diventare, il bersaglio della terapia con eparine a basso peso molecolare (LMWH). Pur nella consapevolezza che l’ipotesi deve essere provata in laboratorio e clinicamente, l’urgenza della situazione suggerisce l’uso delle LMWH in terapia intensiva e non intensiva, tutte le volte che il giudizio rischio-benefici lo consenta.
Uno studio italiano delle università di Catania e Verona ha ripreso la valenza antinfiammatoria ed endotelio-protettiva della terapia eparinica, nonché il suo potenziale effetto antivirale, che vanno aggiunti al consueto ruolo antitrombotico nel paziente allettato dalla polmonite, specie se anziano e perciò predisposto alla disfunzione endoteliale e a una carente risposta immunitaria. La correlazione tra infiammazione e coagulazione è stata ampiamente dimostrata: l’interazione tra endotelio, piastrine e leucociti (con il relativo rilascio di citochine) è un elemento cruciale della risposta infiammatoria; nei soggetti con prognosi peggiore si trova in circolo un livello elevato di D-dimero, un prodotto della degradazione della fibrina e sono ormai molti i riscontri autoptici di micro e macrotrombi polmonari e in altri organi. Da tutte queste considerazioni discende il razionale d’uso dell’eparina e dell’analogo sintetico fondaparinux, che inibiscono il fattore decimo attivato.
Secondo un recente studio del San Raffaele di Milano, quando l’infezione da SARS-CoV-2 decorre asintomatica o paucisintomatica, è probabile che la terapia eparinica non sia necessaria; ma quando compaiono i sintomi respiratori, anche in pazienti in isolamento domiciliare, potrebbe essere utile una profilassi con eparina o fondaparinux, purché la funzione renale sia preservata (clearance della creatinine >50 mL/min). Nel caso di un peggioramento respiratorio e di ritrovamento di un D-dimero alto, il dosaggio dovrebbe passare da profilattico a terapeutico o subterapeutico, sempre tenendo a mente il rischio emorragico. Va detto che questi suggerimenti sono dettati dall’esperienza maturata in altri ambiti, dal momento che è impossibile ricavare un’indicazione terapeutica precisa dai dati sull’attuale epidemia, ancora troppo frammentati e inconsistenti.
Lo studio del San Raffaele punta anche l’attenzione sulla condizione dei pazienti che al momento del contagio con SARS-CoV-2 erano già in trattamento anticoagulante orale o in trattamento antiaggregante piastrinico. In questo secondo caso, è la conta piastrinica a guidare il comportamento: l’antiaggregante deve essere dismesso quando i trombociti scendono <25.000/mm3. Per quanto riguarda l’anticoagulazione orale (pazienti con trombosi venosa profonda, fibrillazione atriale, sostituzione valvolare), in caso di Covid-19 lieve essa può essere proseguita, a meno d’instabilità dell’INR o di difficoltà a misurarlo per quarantena o di difficile accesso ai laboratori: in tal caso, meglio passare ai nuovi coagulanti orali o alle eparine a basso peso molecolare. Se la Covid-19 è moderata o grave, il passaggio all’eparina è imperativo.
Considerazioni sugli antibiotici
La pandemia si è innestata in un contesto di ingravescente antibiotico resistenza e i paesi con maggior incidenza di infezione sono gli stessi in cui sono più frequenti le infezioni ospedaliere che non rispondono agli antibiotici. Ciononostante, poiché nel 2009 le infezioni batteriche sovrapposte all’influenza erano state causa di un eccesso di mortalità, nei primi mesi dell’attuale epidemia l’OMS aveva suggerito l’impiego empirico degli antibiotici in caso di polmonite da Covid-19 e, dato il superlavoro dei laboratori ospedalieri che impediva la ricerca dei batteri eventualmente implicati, i medici si sono orientati sugli antibiotici a più ampio spettro.
Di recente, però, è stato notato che nelle polmoniti da SARS-Cov-2 le sovra-infezioni non sono frequenti: questa osservazione ha indirizzato molti centri ospedalieri verso l’astensione dalla prescrizione antibiotica, anche in fase di dimissione dei pazienti dai pronto soccorso: da un sondaggio on line internazionale appena pubblicato sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy, emerge che il 29% dei pazienti ricoverati non riceve nessun trattamento antibiotico. Nelle cure domiciliari, soprattutto all’inizio dell’epidemia, i medici hanno dato la preferenza ad azitromicina, che ha uno schema terapeutico che facilità la compliance e che, come e più degli altri macrolidi, ha prove di letteratura di avere effetti, oltre che antibatterici, antinfiammatori e immunomodulanti, attenuando la produzione di citochine proinfiammatorie e promuovendo la produzione di immunoglobuline.
È stata anche ipotizzata una loro diretta attività antivirale, sulla base di prove in vitro, nessuna delle quali, però, con coronavirus. Il profilo di sicurezza di azitromicina (come degli altri macrolidi e dei chinolonici) è stato, però, oggetto di un recente warning di AIFA per la sua interferenza sulla conduzione cardiaca: può causare, infatti, un prolungamento della ripolarizzazione cardiaca (intervallo QT), che può essere contrastato assumendo, insieme all’antibiotico, preparati a base di magnesio e potassio.
Fonte: Scienza in Rete