COVID-19: Ci si può davvero ammalare due volte?
Articolo del 14 Settembre 2020
È altamente improbabile ammalarsi due volte di Covid. E lo dimostra la vicenda di un peschereccio americano, raccontata dai virologi della Washington University sul Journal of Clinical Microbiology. Dei 122 membri dell’equipaggio, 120 erano stati sottoposti a un tampone e al test sierologico, e tutti erano negativi al virus, ma tre avevano gli anticorpi. Poi la partenza, l’infezione, e al rientro la sgradita sorpresa: 104 di loro si erano ammalati. Nessuno di questi, prima di partire, aveva anticorpi specifici. Ma i tre nei quali erano stati trovati gli anticorpi non erano tra di loro, e ciò dimostra che questi ultimi sono neutralizzanti.
Eppure ci sono state segnalazioni di possibili re-infezioni come le due, recenti, in Europa, quella del 33enne di Hong Kong e quella del 25enne del Nevada. Come mai? Secondo esperti di Harvard, intervistati sul tema dal New York Times, si tratterebbe, per lo più, di episodi singoli non ben documentati, e quindi, in definitiva, di altro, e anche per coloro per cui sono disponibili più dati, ci sarebbero ancora molti aspetti da chiarire prima di poter davvero parlare di re-infezioni.Il Sars-CoV 2, a quanto si sa oggi, si comporta in modo simile a quasi tutti gli altri virus, e cioè induce una risposta complessa, che serve a proteggere l’organismo da eventuali incontri successivi con l’invasore.
Persone mai del tutto guarite
Infatti, anche se la produzione di anticorpi specifici declina nel tempo, ci sarebbe sempre quella, molto più duratura, dei linfociti T specifici e dotati di memoria, a salvare la situazione. Alcuni casi di apparenti re-infezioni sarebbero, in realtà, relativi a persone mai del tutto guarite, nelle quali il virus si è nascosto in qualche tessuto (tanto da dare tamponi negativi) ed è rimasto quiescente, per poi tornare a riprodursi. Anche alcuni ceppi di Ebola fanno così, e lo stesso accade con i ceppi influenzali (sempre in modo sporadico).
Il ragazzo di Hong Kong, di cui ha parlato anche Science, che dopo una prima infezione ne avrebbe sviluppata un’altra, asintomatica, causata da un Sars-CoV 2 di ceppo diverso dal primo, sarebbe invece effettivamente guarito, per poi incontrare un altro coronavirus dal quale, però, si sarebbe difeso: il suo sistema immunitario avrebbe evitato il peggioramento dei sintomi reagendo in modo appropriato al secondo virus, cioè mobilitando quanto sviluppato contro il primo che, anche se con efficienza minore, sarebbe stato in grado di svolgere il suo compito. La presenza di immunità specifica, infatti, non impedisce al virus, oltretutto di ceppo diverso, di penetrare nell’organismo, ma fa sì che esso non si replichi, o se replichi molto di meno, e quindi che l’infezione non progredisca. Ciò spiega perché anche nei supposti casi di re-infezione si trova il nuovo virus, ma non la malattia.
Molto meno chiaro è il caso del venticinquenne del Nevada, la cui storia è stata pubblicata in anteprima su Lancet, perché in quel caso la seconda infezione sarebbe stata sintomatica, con polmonite interstiziale. L’analisi dei genomi virali ha mostrato che il secondo virus è una versione del primo con alcune mutazioni: se si tratti di una vera reinfezione, oppure di una rapida evoluzione genetica di un virus che in realtà non se n’era mai andato è ancora da chiarire, anche se la prima ipotesi è ritenuta più plausibile.
Ma va anche ricordato che in un altro studio, pubblicato sempre su Lancet e incentrato sulle mutazioni, l’8% dei pazienti aveva, nello stesso momento, il tipo wild e un tipo mutato. Solo la conoscenza dei dettagli di questi pazienti potrà chiarire che cosa veramente è successo. E sarà importante farlo per rispondere a molti quesiti: per esempio, se e quanto questi soggetti possano infettare altri, o che conseguenza possa avere ciò sui vaccini. Per ora si tratta comunque di casi veramente sporadici, su oltre 25 milioni di persone infettate nel mondo.
Fonte: 24+ de IlSole24Ore