Covid-19 e anticorpi monoclonali, cosa sta succedendo
Articolo del 12 Febbraio 2021
Via libera agli anticorpi monoclonali. Il 6 febbraio scorso, “sulla base delle indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco e del parere del Consiglio superiore di sanità”, il ministro della Salute (uscente) Roberto Speranza ha firmato il decreto che autorizza la distribuzione degli anticorpi monoclonali delle aziende Eli Lilly e Regeneron/Roche per la prevenzione delle forme gravi di Covid-19 in pazienti con malattia lieve, ma considerati a rischio. Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e resterà in vigore per (almeno) 180 giorni: stando alle dichiarazioni del ministro, con l’approvazione degli anticorpi monoclonali “abbiamo, insieme ai vaccini, una possibilità in più per contrastare il Covid-19”. Per distribuire e somministrare gli anticorpi monoclonali, lo stato italiano attingerà al fondo di 400 milioni di euro messo a disposizione per l’acquisto di vaccini e farmaci contro Sars-Cov-2: una decisione che sta facendo discutere, perché nonostante le dichiarazioni del ministro le evidenze scientifiche al momento disponibili sono ancora incerte. I dati sui trattamenti a base di anticorpi monoclonali sono infatti immaturi, e sembrano suggerire che i farmaci abbiano un’efficacia limitata e su una fetta ristretta di pazienti.
Cosa sono gli anticorpi monoclonali
Ma partiamo dall’inizio. Un anticorpo è una molecola (una glicoproteina, per la precisione) che ha il compito di riconoscere gli agenti patogeni estranei al corpo, come batteri e virus, per permettere al nostro organismo di neutralizzarli. Il sistema immunitario ne produce di diversi tipi, che identificano il nemico con un sistema chiave/serratura: quando il sito di legame presente sulla superficie di un anticorpo trova un antigene complementare su un patogeno (o su un altro elemento esterno) che sta invadendo il nostro organismo, il sistema immunitario inizia a produrre in massa l’anticorpo in questione, e in questo modo – se tutto va bene – l’infezione viene sconfitta.
Questo meccanismo che però ha delle limitazioni: anzitutto, gli anticorpi esistono in miliardi di forme diverse, e non tutte hanno la stessa efficacia contro i patogeni; inoltre, l’organismo impiega un certo tempo per organizzare la difesa e produrre anticorpi in quantità sufficienti a debellare una malattia in corso, e talvolta soccombe prima di riuscirci. È proprio per risolvere questi problemi che la comunità scientifica e l’industria farmaceutica ha cominciato (già dagli anni Ottanta, in verità) a sviluppare e produrre anticorpi monoclonali, ossia repliche create artificialmente in modo da essere tutte identiche tra loro, e quindi con esattamente la stessa capacità di neutralizzare il proprio antigene. In linea di principio, basta identificare (tra i tanti) un anticorpo particolarmente efficace e produrne in massa copie perfette per trovarsi tra le mani un farmaco molto potente, con cui attaccare tumori, elementi mal funzionanti del nostro sistema immunitario (è il caso, per esempio, di molte malattie autoimmuni, tra cui quelle reumatologiche), ma anche, ovviamente, batteri e virus. Tra questi ultimi, al momento, solo quelli diretti contro l’infezione.
Gli anticorpi monoclonali contro Covid-19
Proprio come è avvenuto per i vaccini, diverse aziende farmaceutiche, in tutto il mondo, hanno sviluppato e sperimentato, a tempi record, anticorpi monoclonali potenzialmente utili per combattere la pandemia causata da Sars-Cov-2. I primi a salire agli onori delle cronache sono stati quelli prodotti dalla biotech americana Regeneron: a renderli famosi è stato Donald Trump, paziente illustrissimo cui sono stati somministrati nell’ottobre scorso, quando si ammalò di Covid-19. I due anticorpi monoclonali di Regeneron (i cui nomi sono casirivimab e imdevimab, dove il suffisso -mab sta per Monoclonal AntiBody), sono stati isolati in un paziente di Singapore e ottenuti in laboratorio isolando la proteina spike del coronavirus nell’organismo di un topo modificato geneticamente per fornirgli un sistema immunitario umano.
Poi ci sono le molecole della multinazionale Eli Lilly, il bamlanivimab e l’etesevimab, e almeno un’altra dozzina di farmaci in via di sviluppo o di sperimentazione, tra cui uno di AstraZeneca (noto per ora con la sigla AZD7442) arrivato ai trial clinici di fase 3 con circa 6mila pazienti arruolati, e tre molecole isolate dal Monoclonal Antibody Discovery Lab della Fondazione Toscana Life Science, a Siena.
Cosa ci dicono gli studi finora
A contribuire a tutto il rumore attorno alla recente approvazione alla somministrazione degli anticorpi monoclonali è stato un comunicato stampa diramato da Eli Lilly il 26 gennaio scorso, in cui l’azienda ha dichiarato che “i nuovi dati mostrano che il trattamento con bamlanivimab (LY-CoV555) ed etesevimab (LY-CoV016), somministrati insieme, hanno ridotto il rischio delle ospedalizzazioni e dei decessi da Covid-19 del 70%”. Una percentuale che, se fosse confermata, giustificherebbe l’appellativo salvavita per questi farmaci: il problema è che a oggi i risultati di questi trial clinici non sono stati ancora pubblicati, e quindi non c’è modo di sapere se e quanto siano solidi; tra l’altro, il comunicato stampa fa riferimento a un campione di pazienti abbastanza limitato, poco più di mille persone, tra le quali, dice l’azienda, si sono registrati 11 eventi (ospedalizzazione e/o decesso) nel gruppo cui è stato somministrato il cocktail e 36 eventi nel gruppo trattato con il placebo. E infatti l’azienda, nello stesso comunicato, sottolinea che “i dati clinici disponibili per il bamlanivimab sono limitati” e rimarca la necessità di svolgere studi più estesi e approfonditi per poter trarre conclusioni più solide.
In ogni caso, ci sono anche studi effettivamente pubblicati. Si tratta di lavori preliminari, i cui risultati purtroppo non consentono ancora di arrivare a conclusioni definitive sull’efficacia degli anticorpi monoclonali. Parliamo, in particolare, di tre studi, due sugli anticorpi di Eli Lilly e uno su quelli di Regeneron. Quello che emerge da questi lavori è, anzitutto, che gli anticorpi monoclonali vanno somministrati nelle fasi precoci della malattia, e che non funzionano nelle fasi più avanzate. Un dato che, spiega Alberto Beretta, ordinario di scienza chimica farmaceutica all’Università di Parma, “non ci ha sorpreso, perché ormai sappiamo benissimo che quando iniziano i sintomi della polmonite il virus ha ormai lasciato la scena e a provocare la malattia ci pensa il sistema immunitario stesso, con una reazione che può solo essere interrotta da un efficace anti-infiammatorio o immunosoppressore, ma non da un antivirale”.
Le problematiche
Dunque, primo punto: gli anticorpi monoclonali andrebbero somministrati all’inizio della malattia e su pazienti su cui – si presume – la malattia possa evolvere in modo grave, cioè persone con uno o più fattori di rischio come malattie cardiache e polmonari o obesità. Cosa dire dell’efficacia? Il parere tecnico dell’Aifa, basato sui risultati degli studi, parla chiaro: il farmaco di Eli Lilly, nel dosaggio da 700 mg (l’unico disponibile al momento), ha ridotto l’ospedalizzazione e i passaggi al pronto soccorso del 5% nella popolazione generale a 29 giorni dalla somministrazione. Per la precisione, il passaggio in ospedale è avvenuto in 9 casi su 156 (il 5,8%) nel placebo e in 1 su 101 (l’1%) nei pazienti trattati. E i dati sull’efficacia dei farmaci Regeneron sono molto simili.
Ci sono anche altri aspetti da considerare. Le modalità di somministrazione, per esempio: gli anticorpi monoclonali non sono semplici pillole, ma preparati molto delicati, che vanno inoculati in ambiente ospedaliero (o comunque medicalizzato) con infusione endovenosa della durata di un’ora, alla quale ne va aggiunta un’altra di osservazione del paziente per gestire opportunamente eventuali eventi avversi.
Poi c’è la questione, altrettanto importante, delle mutazioni del virus: sempre stando ai risultati della sperimentazione degli anticorpi monoclonali di Eli Lilly, è emerso che sequenziando il virus presente nei pazienti prima e dopo la terapia con bablanivimab (sia da solo che insieme a etesevimab), la proteina spike del patogeno cambia nel corso della terapia, inserendo – nel 7,1% dei casi della monoterapia e nell’1% dei casi dell’assunzione combinata – delle mutazioni che la rendono resistente all’azione degli anticorpi stessi. E infine, ma non meno importante, la questione dei costi: sviluppare, produrre, distribuire e somministrare anticorpi monoclonali è tutt’altro che economico.
Fonte: Galileo