Covid, all’aperto è quasi impossibile il contagio anche se l’aria è inquinata
Articolo del 10 Gennaio 2021
Lo studio dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr e di Arpa Lombardia. Vivere in un luogo con molto smog, di per sé, non favorisce la trasmissione del virus.
Le possibilità di contagiarsi di Covid-19 all’aperto sono infinitesimamente basse. Anche se si vive in aree urbane caratterizzate da una massiccia presenza nell’aria di particolato, quel mix di inquinanti invisibili che rappresentano il frutto delle attività dell’uomo. Sgombera il campo dai dubbi, uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr e di Arpa Lombardia, pubblicato sulla rivista “Environmental Research”. E aggiunge un tassello in più alla conoscenza di quella che può essere la relazione tra l’andamento della pandemia e la situazione atmosferica. La maggiore diffusione dei contagi nella Pianura Padana ha con ogni probabilità poco a che vedere con il suo essere la zona più inquinata della Penisola. Diverso invece potrebbe essere il discorso se si guarda alle conseguenze in termini di mortalità. È un dato di fatto, d’altra parte, che l’inquinamento mini la salute, a vari livelli. E in questi mesi è divenuto chiaro a tutti che quanto più fragili sono le condizioni di partenza di una persona, tanto più alti risultano i rischi entrando a contatto con il coronavirus.
Il virus non viaggia con lo smog
Vivere in un luogo inquinato, di per sé, non favorisce il contagio. I ricercatori sono giunti a questa conclusione dopo aver analizzato le concentrazioni di Sars-CoV-2 in aria nelle città di Milano e Bergamo, studiando l’interazione con le altre particelle presenti in atmosfera. Perché la prima ondata della pandemia ha colpito in maniera più rilevante il Nord Italia rispetto al resto del Paese? E perché la Lombardia, in particolare, è stata la regione con la maggiore diffusione del contagio, con oltre 1 caso su 3 alla fine del maggio scorso? Queste le premesse del lavoro degli scienziati, al termine del quale è giunta una parziale “assoluzione” per l’inquinamento. Partendo da una stima delle concentrazioni di particelle virali in atmosfera a Milano e Bergamo in funzione del numero delle persone positive nel periodo di studio, i ricercatori hanno dimostrato che il rischio di contagiarsi in aree pubbliche all’aperto è molto basso. “Anche ipotizzando una quota di infetti pari al dieci per cento della popolazione, sarebbero necessarie in media 38 ore a Milano e 61 ore a Bergamo per inspirare una singola particella virale”, afferma Daniele Contini, dirigente di ricerca nella sede di Lecce dell’Istituto di Scienze per l’Atmosfera e il Clima del Cnr. Segno che il particolato atmosferico non funge da “taxi” per le particelle virali nell’atmosfera.
Trascurabile il contagio all’aperto
“A Milano servirebbe avere ogni giorno 45mila positivi in circolazione per avere una probabilità media del 50 per cento di individuare il Sars-CoV-2 nei campioni di PM10”, è la stima di Vorne Gianelle, responsabile del centro specialistico di monitoraggio della qualità dell’aria di Arpa Lombardia. A ciò occorre aggiungere che, seppure una persona entrasse a contatto con una singola particella virale, non è detto che il contagio si concretizzerebbe. Il virus, infatti, oltre che presente, deve essere vivo. Ed è stato dimostrato che la sua degradazione nell’aria – per esempio a seguito di uno starnuto da parte di un positivo, anche asintomatico – si completa di norma in tre ore. “La maggiore probabilità di trasmissione in aria del contagio, al di fuori di zone di assembramento, appare dunque essenzialmente trascurabile”, aggiunge Contini. Nessun rischio in più, di conseguenza, sembra derivare dalle attività svolte all’aperto anche in un luogo di forte circolazione del virus. Naturalmente, se da soli o accompagnati da poche persone. E nel rispetto sia del distanziamento sociale sia dell’uso della mascherina. Completamente diverso invece lo scenario nei luoghi chiusi, dove l’eventuale accumulo e la permanenza di particelle virali può determinare conseguenze più gravi, soprattutto se si rinuncia a coprirsi la bocca e il naso.
Malattia più aggressiva per l’inquinamento?
L’inquinamento non sembra essere stata dunque la causa della maggiore diffusione del virus nel Nord del Paese, tra febbraio e maggio. “Anche perché, con la seconda ondata, abbiamo visto che anche il Mezzogiorno è risultato vulnerabile”, è la considerazione con cui Contini dà sostanza ai dati. Più probabile che a penalizzare in primis la Lombardia sia stata la forte industrializzazione: non tanto per questioni legate all’inquinamento, quanto alla densità abitativa e all’elevato numero di contatti internazionali. Diverso invece potrebbe essere il discorso relativamente all’impatto sulla salute che l’infezione e la malattia (Covid-19) possono avere avuto su persone rese più vulnerabili dall’abitudine a respirare aria malsana. È noto, infatti, che l’inquinamento ambientale aumenta la probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari, metaboliche e polmonari. Ragion per cui, nelle aree più inquinate, è maggiore la quota di popolazione più esposta alle complicanze da Covid-19. A ciò occorre aggiungere che il particolato inquinante comporta un incremento della risposta infiammatoria a livello polmonare. Questo aspetto, in presenza di Sars-Cov-2, può favorire la comparsa di sintomi più gravi.
Fonte: La Repubblica