“Covid si diffonde in aree a più alta intensità energetica”: lo studio che invita i governi a scommettere sullo sviluppo delle aree rurali
Articolo del 03 Dicembre 2020
“Se il Covid-19 segue i modelli di sviluppo territoriale ed economico e corre di più nelle aree a più alta intensità energetica, politiche differenti che aiutino a rivitalizzare le aree rurali possono aiutare non solo a superare la crisi innescata da Sars Cov 2, ma anche a rendere la popolazione più resiliente in caso di future pandemie”. È questo il messaggio sullo sfondo dello studio Covid-19 and rural landscape: the case of Italy, pubblicato su Landscape and Urban Planning e sulla Working Paper Series della Bce e condotto da Mauro Agnoletti, docente dell’Università di Firenze e presidente del programma della Fao per la tutela del patrimonio agricolo mondiale, Simone Manganelli, capo divisione della ricerca finanziaria alla Banca centrale europea (Bce), e Francesco Piras, ricercatore dell’Ateneo fiorentino.
LA MAPPA DEL CONTAGIO – Si parte da una mappa, quella dell’Italia, nella quale si evidenziano sia la densità dei contagi sia le differenti aree in cui questi contagi si registrano. “Ed è una mappa che mostra immediatamente quello che è accaduto e sta accadendo nel nostro Paese”, spiega a ilfattoquotidiano.it il professore Mauro Agnoletti. Il ministero delle Politiche Alimentari, Agricole e Forestali ha classificato il paesaggio rurale italiano in quattro tipologie distinte: paesaggi rurali urbani e periurbani, paesaggio ad alta, media e bassa intensità. “Analizzando le caratteristiche ambientali, industriali e rurali, nella mappa è evidente la correlazione tra il paesaggio ad alta intensità energetica e il contagio, statisticamente significativa anche tenendo conto delle diverse caratteristiche demografiche, economiche ed ambientali”, sottolinea Agnoletti che riassume: “Il virus non si diffonde secondo limiti amministrativi regionali, ma secondo le caratteristiche territoriali e non è neppure la densità demografica il fattore più determinante”. Ma lo stesso docente spiega che “pur non inficiando il risultato finale, lo studio è stato realizzato senza il dato aggregato dei singoli comuni (c’è quello delle province), di cui ci sarebbe bisogno per questo e altri tipi di analisi”.
L’AGO DELLA BILANCIA – Nello studio il territorio nazionale è stato diviso in due macro-categorie: quella dei paesaggi intensivi (che comprende sia i paesaggi rurali urbani e periurbani sia quelli ad alta intensità), con in media un numero maggiore di persone infette e quello dei paesaggi non intensivi. L’ago della bilancia, dunque, sembrano essere i diversi modelli di sviluppo e gli input energetici dovuti alle attività industriali e agroindustriali. Un risultato ancora più sorprendente, se si considera che la popolazione delle province a minore consumo energetico è in media più anziana e, secondo le più recenti ricerche mediche, più vulnerabile al virus. Si analizzano diversi scenari, prendendo in considerazione principalmente l’intensità energetica del paesaggio e poi altre variabili. Se nel modello più semplice, quello che prende in considerazione il tipo di paesaggio in base all’intensità energetica (e quindi al modello di sviluppo economico), anche l’aggiunta, nei modelli successivi, di dati demografici, economici e sanitari non sposta più di tanto il primo risultato. Le variabili più significative sono i livelli di inquinamento e disoccupazione: “Le province con livelli più elevati di inquinamento e livelli più bassi di disoccupazione tendono ad essere maggiormente colpite dal Covid-19”.
AGNOLETTI: “SVILUPPO TROPPO INTENSIVO SU APPENA IL 23% DEL TERRITORIO” – “Ed è un problema visto che c’è un’eccessiva intensificazione di questo tipo di sviluppo e di attività in appena il 23% del territorio italiano, dove sembra concentrarsi tutto”, commenta Agnoletti, secondo cui bisogna porsi l’obiettivo “rivitalizzare le aree rurali, magari anche attraverso le risorse messe a disposizione dal Recovery Fund e dalle politiche agricole”. Come procedere? Occorre produrre quei servizi che attraggano le persone o che spingano quelle che ci sono già a non andar via: “Dai servizi sanitari, assistenziali ed educativi alla tecnologia e alle connessioni Internet, in modo che possano, per esempio, lavorare da remoto”. La percentuale di aziende agricole che utilizzano le telecomunicazioni è ancora troppo bassa. L’invito è quello “di ripensare a diversi modelli di sviluppo, perché certi modelli intensivi sono applicabili in determinate aree, ma non certo in tutto il resto del Paese per il quale, però, occorre un’alternativa”. Anche in previsione del futuro o di future emergenze, pericolo tutt’altro che scongiurato secondo gli scienziati.
NEL PAESAGGIO MENO INTENSIVO CI SI AMMALA TRE VOLTE DI MENO – Nelle aree dove regna questo modello (le più soggette a inquinamento causato da nitrato, metano ed emissioni di ossido nitroso, che incide sulla qualità ambientale), infatti, la media è di 286 casi ogni 100 chilometri quadrati, contro una media nazionale di 145 casi, mentre nelle zone meno industrializzate e dove resistono sistemi di agricoltura più tradizionale e per il 68% dei ‘paesaggi non intensivi’ ci sono anche superfici protette ci si ammala tre volte di meno (i casi sono 108 ogni 100 chilometri quadrati). “Dalla mappa è evidente la situazione della Pianura Padana, la più colpita”, ma lo sono anche il fronte adriatico dell’Emilia Romagna, la valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, le aree che circondano Roma e Napoli. Che ruolo ha l’agricoltura intensiva? “Ha un ruolo, ma non da sola. Contribuisce sicuramente a far aumentare l’intensità energetica di alcune aree”.