Curare il disagio psicologico negli adolescenti con l’aiuto della realtà virtuale (e dei neuroni Gps)
Articolo del 28 Novembre 2021
Una revisione sistematica degli studi sull’argomento è giunta alla conclusione che questa tecnologia può fornire una modalità di trattamento efficace e accettabile.
La realtà virtuale (Vr) può diventare una «terapia» per la gestione del disagio psicologico negli adolescenti? Se lo sono chiesti Joshua N. Kelson della Charles Sturt University di Bathurst (Australia) e i colleghi autori di una revisione sistematica degli studi sull’argomento, pubblicata sulla rivista Cyberpsychology, behavior and social networking. I ricercatori hanno passato al setaccio la bibliografia sull’argomento, trovando 2.150 articoli. Eliminando i doppioni ne sono rimasti 1.457 ma di questi solo sette soddisfacevano i criteri di ammissibilità. Quattro degli studi provenivano dagli Stati Uniti e uno ciascuno da Iran, Norvegia e Paesi Bassi. Si tratta tuttavia di un numero troppo esiguo di lavori scientifici per poterne trarre risultati definitivi, come sottolineano gli autori stessi. Un limite importante, certo. Per non parlare dei potenziali rischi etici, sanitari e di sicurezza che la Vr ancora presenta. La conclusione della revisione, comunque, è che «la tecnologia di realtà virtuale può fornire una modalità di trattamento rapidamente efficace e accettabile per gestire il disagio psicologico in parecchie popolazioni chiave di adolescenti».
Ansia sociale
Ma è così? La realtà virtuale può davvero essere utile nel trattare questo tipo di disturbo ? «La review sistematica dice esattamente questo — spiega Giuseppe Riva, ordinario di Psicotecnologie per il benessere all’Università Cattolica di Milano dove dirige lo Humane Technology Lab e tra i massimi esperti e studiosi dell’utilizzo della Vr nei campi della riabilitazione e della salute mentale —: analizzando gli studi emerge come la realtà virtuale sia uno strumento efficace per la gestione del disagio psicologico nell’adolescente e in particolare nei disturbi d’ansia. E il tipo di disturbo esploso con la pandemia è stato la cosiddetta ansia sociale. Soprattutto gli adolescenti si sono trovati talmente bene a casa, con i videogiochi e con la didattica a distanza, che poi molti non hanno voluto più uscire. Ebbene la realtà virtuale si è dimostrata efficace proprio nella gestione dell’ansia sociale».
Di quale approccio si serve la realtà virtuale in questi casi?
«Tipicamente usa l’approccio della terapia cognitivo-comportamentale. In alcuni casi, si aggiunge anche l’utilizzo di tecniche legate alla mindfulness che sono più legate all’Acceptance and commitment therapy (Act, terapia di accettazione e di impegno nell’azione, ndr), cioè la versione avanzata della terapia cognitivo-comportamentale. L’idea di base è duplice: da una parte una desensibilizzazione, cioè il soggetto viene esposto a una serie di situazioni che sperimenta come problematiche. Esponendolo più volte, questo riduce il livello di ansia. La seconda dimensione è quella legata al superamento del problema. Se un soggetto ha paura di non essere in grado di gestire le interazioni con i suoi pari, ad esempio, la realtà virtuale dimostra invece che riesce a farlo. Questo aumenta la fiducia di una persona nelle proprie capacità, abilità, potenzialità di esercitare un controllo sugli eventi e spinge a provarci anche nella vita reale».
Quali meccanismi si attivano a livello cerebrale?
«La Vr è l’unica tecnologia che è stata dimostrata capace di attivare i cosiddetti neuroni Gps, legati all’orientamento nello spazio. I coniugi May-Britt Moser ed Edvard Moser che li hanno scoperti (e per questo hanno vinto il Premio Nobel per la medicina nel 2014 insieme a John O’Keefe della University College di Londra, ndr) hanno visto che, oltre a mappare lo spazio, i neuroni Gps servono anche per la nostra memoria autobiografica: cioè noi definiamo chi siamo all’interno dello spazio. La realtà virtuale ci fa sentire a tutti gli effetti all’interno di uno spazio e, attraverso i neuroni Gps, ciò che facciamo resta così “agganciato” alla nostra memoria autobiografica. Questo è fondamentale».
Quali possono essere i rischi?
«Per fortuna limitati: la realtà virtuale è una tecnologia che ha un impatto sul sistema vestibolare. Se una persona soffre di mal d’auto o disturbi di questo tipo potrebbe sperimentare la cosiddetta simulation sickness. Quindi la Vr non fa per lui. Per fortuna, però, il problema riguarda il 2-3% della popolazione».
È ancora presto per poter parlare di realtà virtuale come terapia?
«Esistono una serie di problemi: il principale è la mancanza di studi clinici di alta qualità. In medicina lo studio controllato è il classico strumento usato per la validazione clinica. Oggi non c’è ancora un mercato forte della Vr, per cui le realtà che sviluppano questi programmi spesso non hanno i fondi poi per effettuare questi studi. L’altro grosso limite in Italia che non sono previsti rimborsi. Nonostante ci sia una regolamentazione che permette di avere la certificazione per il software come dispositivo medico, oggi i digital therapeutic non sono considerati un’opzione terapeutica dal Servizio sanitario nazionale».
Fonte: Corriere della Sera