Diete a controllo calorico o di segnale? Una caloria è sempre una caloria?
Articolo del 08 Settembre 2022
Il calcolo delle calorie è ormai passato di moda. Per fortuna. È ora di incominciare a comprendere che ingrassamento e dimagrimento dipendono dai segnali interni o esterni che il nostro ipotalamo riceve ogni giorno. Siamo animali fatti per muoverci, e per mangiare soprattutto proteine, frutta e verdura. Vediamo come e perché farlo può proteggere la nostra salute e regalarci un fisico da urlo.
Una caloria è sempre una caloria?
Un gran numero di operatori in campo dietologico ritiene ancora ingenuamente che “una caloria sia sempre una caloria”, sottintendendo con ciò che se si mangia una caloria in più, questa inevitabilmente genererà ingrassamento. Purtroppo per costoro le cose non stanno così. Il fallimento delle diete ipocaloriche (in cui si perde peso perdendo in prevalenza massa magra e si recupera poi tutto con gli interessi in tempi brevi) è sotto gli occhi di tutti.
La comprensione del funzionamento della tiroide potrebbe aiutare molti a capire davvero come funziona il meccanismo.
La tiroide è in realtà un esecutore di ordini che provengono dall’alto. Il suo diretto superiore è l’ipofisi, che riceve peró, a sua volta, comandi operativi dall’ipotalamo, quel prezioso pezzo del nostro cervello più antico (da noi condiviso perfino con i rettili) dalla cui comprensione dipende la possibilità di modulare il nostro ingrassamento e dimagrimento.
È dunque l’ipotalamo, attivando di più o di meno la secrezione di ormone tiroideo, a stabilire se il corpo produrrà maggiormente calore o ATP dal cibo assimilato, e quindi è dalle “decisioni” dell’ipotalamo che dipende il bilancio energetico del nostro organismo e non, come molti ancora erroneamente pensano, dalle calorie assunte.
Cerco di spiegarmi ancora meglio, perché questo punto è fondamentale per capire la differenza tra DietaGIFT e qualunque altro approccio basato sulle calorie.
Una caloria è sempre una caloria, da un punto di vista fisico, e l’energia sappiamo che non si crea e non si distrugge ma si trasforma. Tuttavia se una caloria si trasforma in calore oppure in ATP la differenza è enorme. Se ciò che mangio si trasforma in calore, tale calore verrà emesso nell’ambiente, e nel mio corpo non ne resterà traccia. Se ciò che mangio va invece tutto in ATP, ovvero in energia conservata e utilizzabile, tutta l’energia assunta col cibo verrà accumulata sotto forma di glicogeno (zuccheri), sintesi proteica (muscolo, collagene, unghie, capelli, cellule) o sintesi lipidica (grassi, colesterolo) e consumata in parte in relazione ai fabbisogni energetici dell’organismo. In pratica ciò che succede a quelle persone che dicono “mangio come un uccellino e ingrasso continuamente”.
Ciò che ci fa dimagrire, dunque, è l’analisi da parte dei recettori dell’ipotalamo di una serie di segnali rivolti al consumo e non all’accumulo. Non il controllo delle calorie.
Lo studio e la comprensione di tali segnali rappresentano da anni l’oggetto di approfondimento della DietaGIFT e dell’alimentazione di segnale, come strumenti di dimagrimento e di salute.
Sembra alquanto stupefacente che per dimagrire si debba mangiare con abbondanza, perché molti obesi sono anche grandi consumatori di cibo. Eppure le cose stanno proprio così, ma a condizione che il cibo che mangiamo sia privo di sostanze in grado di alterare i nostri equilibri endocrini.
Nati per muoverci
Mangiare sano (normocalorica e normoproteico) e senza perturbanti endocrini non è la sola strada per arrivare al peso forma. Serve anche muoversi. Spetta al medico di segnale dare la giusta prescrizione anche relativamente al movimento.
Capire chi siamo può essere un primo passo avanti per non lamentarsi del fatto che ci si deve muovere ogni giorno. Infatti non siamo nati per camminare o per stare fermi, siamo nati per correre. La nostra struttura scheletrica, le nostre modalità di consumo energetico, le nostre capacità di smaltire il calore prodotto, sono quelle di un efficientissimo corridore di lunga durata. Questa l’autorevole opinione di due eminenti studiosi americani, Dennis Bramble e Daniel Lieberman, che hanno pubblicato una ricerca di estremo interesse su Nature nel Novembre 2004. Ma è anche la mia.
Molti miei pazienti, di fronte alla mia insistenza per spingerli a muoversi, mi dicono frasi come “Dottore, correre non fa per me”. Pensano che correre sia una forzatura inaccettabile per il nostro fisico, che sia sport faticoso, dannoso, rischioso. Questa posizione serve spesso solo a giustificare una sedentarietà di lunga data, i cui effetti sul sovrappeso e sulla salute talvolta sono drammaticamente visibili. Bene, farà piacere a molti sapere che le cose stanno esattamente all’opposto. Certo chi si mette a correre senza la minima preparazione, o dopo anni di sedentarietà, non proverà belle sensazioni sentendosi il cuore in gola e i muscoli dolenti. Ma questo sarà dovuto a marchiani errori del tutto evitabili, non certo ad un rifiuto fisico della corsa. Perché il nostro corpo è nato per correre.
Bramble e Lieberman, nel loro lavoro intitolato “Running and the evolution of Homo”, hanno analizzato in dettaglio le caratteristiche differenziali tra Homo sapiens e i suoi ominidi predecessori, come Homo erectus, Homo habilis, Australopithecus afarensis (la famosa “Lucy”) e le moderne scimmie antropomorfe come lo scimpanzé. Sono state esaminate le peculiarità di Homo sapiens (cioè le nostre) sotto quattro diversi punti di vista: 1) Meccanismi energetici. 2) Forze a cui lo scheletro è soggetto? 3) Bilanciamento in corsa? 4) Termoregolazione.
Sotto ciascuno di questi punti di vista emerge con chiarezza come le modificazioni fisiche che differenziano il corpo dell’uomo da quello della scimmia non servano solo a camminare o a stare in piedi come bipedi, ma trovino una piena giustificazione specificamente nell’accompagnare in modo efficiente un’azione di corsa di lunga durata. Ciò significa che l’uomo si è distaccato dagli altri primati modificando le sue abitudini alimentari, sessuali, sociali e di linguaggio, grazie ad un comune denominatore corporeo di adattamento alla corsa di lunga durata. In altre parole, solo la capacità di correre a lungo ci ha permesso di distaccarci dal “resto del gruppo”, cambiando poi a poco a poco tutto il resto (cervello, apparato digerente, corde vocali ecc.).
Quanto riportato non può lasciarci indifferenti. Sapere che il nostro organismo non solo è stato progettato per correre, ma anzi ha trovato nella corsa il mezzo per distaccarsi funzionalmente dai primati affini, deve farci riflettere. Come ci sarebbe impossibile vivere al buio (essendo il nostro corpo adattato alla luce) se non perdendo la nostra salute, così dobbiamo capire che ci è impossibile vivere senza muoverci. La corsa fa parte di noi, della nostra storia, del nostro corpo, del nostro equilibrio psicofisico.
C’è chi ingenuamente pensa che stare fermi significhi solo “rimandare” il dimagrimento a quando si deciderà di muoversi. Non è così: chi sta fermo ingrassa, perché il corpo del sedentario registra un potenziale digiuno (chi non si muoveva per procurarsi il cibo restava digiuno), e quindi trasforma prudentemente in grasso qualunque cibo si assuma.
Ignorare questo fatto può voler dire ingrassare e contrarre un debito permanente con la nostra salute. Chi non potrà correre per un milione di buoni motivi potrà concordare con il suo terapeuta modalità di movimento più graduali e ppercorribili. Prendiamo però una volta per tutte consapevolezza del fatto che il “sedentario” sta rinunciando a qualcosa che è stato centrale nella sua storia evolutiva. Rinunciare a muoversi è rinunciare ad un pezzo di noi.
Alimentazione ancestrale
Una volta compreso chi siamo, diventa più facile capre quale sia la nostra alimentazione naturale. Una malintesa antropocentricità ci ha fatto pensare in anni recenti di poter essere al di sopra della nostra eredità evolutiva. È da questo grave errore che sono nati molti dei problemi alimentari che oggi ci affliggono.
Se noi tracciassimo una linea immaginaria da Milano a Roma, rappresentante il tempo corrispondente alla più recente evoluzione del genere Homo (diciamo da due milioni di anni fa, ovvero a partire da Homo erectus, un ominide già cacciatore-raccoglitore, privo di pelliccia), con il centro di Roma corrispondente all’oggi, potremmo tranquillamente dire che l’inizio dell’agricoltura (che convenzionalmente si situa circa 10000 anni fa nella cosiddetta mezzaluna fertile, l’attuale Irak) si situerebbe alla periferia di Roma, cioè molto in prossimità all’oggi.
Questo significa che l’essere umano non è, da un punto di vista evolutivo, un animale “agricolo” ma è ancora a tutti gli effetti un nomade cacciatore raccoglitore.
Per capire cosa mangiasse l’uomo primitivo dobbiamo immaginarci uomini liberi nella savana. Lo studio delle poche residue popolazioni odierne (gli Hazda della Tanzania, gli indios Yanomani, i pigmei Kung africani, gli aborigeni australiani) ci aiuta. La base alimentare di questi popoli è legata ai prodotti di raccolta della terra: frutta, verdura, radici commestibili. Una forte quota nutrizionale è però costituita da proteine animali frutto di semplice raccolta (uova, insetti, molluschi) o di caccia (pesci, uccelli, animali terricoli). Infine è sempre presente una componente amilacea (noci, ghiande, semi di ogni genere) che, quando stagionalmente reperibile, è molto gradita e ricercata. Si tratta quindi di una piramide alimentare molto appiattita, che presenta alla base ogni genere di frutta e di verdura, al centro proteine animali di varia provenienza e in alto i semi. Dalla piramide dell’uomo sono del tutto assenti i “non alimenti” che oggi siamo abituati a consumare con grande autoconcessività: zucchero, farine raffinate, alcolici e superalcolici e tutti i loro derivati. È assente, come è evidente, anche il latte. Il consumo di latte e latticini è stato possibile grazie ad una modifica evolutiva recente (di circa 5000 anni fa) che ha riguardato un piccolo gruppo di popolazioni europee abitanti in climi freddi.
Zucchero malandrino
Un’assunzione frequente di non-cibi come lo zucchero, le farine raffinate, gli edulcoranti artificiali, o i cibi ricchi di sale, di glutammato, o di grassi idrogenati, fritti o comunque alterati, può fortemente squilibrare il nostro equilibrio endocrino, portandoci a mangiare molto più del dovuto e a ricercare cibi ancora più ricchi di questi non-nutrienti. Queste sostanze sono state chiamate “endocrine disruptors” (interferenti endocrini) proprio per la loro capacità di indurre risposte alterate nel nostro metabolismo.
Uno dei meccanismi più studiati, da questo punto di vista, è quello legato all’insulina. Quando il livello di zuccheri nel sangue (glicemia) si eleva, il pancreas secerne insulina allo scopo di abbassarlo. Si tratta di un meccanismo del tutto naturale, che si verifica ogni volta che mangiamo del cibo (l’insulina infatti aiuta l’assorbimento cellulare anche di aminoacidi e acidi grassi), tanto che l’assenza completa di insulina (così come avviene per i diabetici insulino-dipendenti) è incompatibile con la vita. Ciò che invece non è per niente naturale è la forte impennata zuccherina conseguente all’assunzione di cibi contenenti zucchero aggiunto, che può fortemente squilibrare i nostri equilibri endocrini.
Nella preistoria le sole fonti di zucchero erano legate alla frutta che, come sappiamo, è costituita quasi interamente da acqua, ed ha pertanto un carico glicemico molto basso (la frutta preistorica, peraltro, non era ancora stata selezionata come oggi per dimensione e dolcezza). Oggi invece quasi qualunque alimento industriale (non solo i dolciumi: anche il mais, i piselli, la ketchup) viene zuccherato per essere reso più gradevole, con quantità di zucchero sconosciute alle nostre origini.
Per capire l’entità del discorso basta fare qualche calcolo. Un uomo adulto di taglia media possiede circa 5 litri di sangue. In quei cinque litri (glicemia a digiuno 90 mg/100 ml, ematocrito 45) nuotano solo 2,5-3 g di zucchero. Se assumiamo anche una sola tazzina di caffè, zuccherandola con una bustina intera (da circa 6 grammi), nel giro di 3 minuti quello zucchero si aggiungerà ai 2-3 g già presenti nel nostro sangue, portando teoricamente la nostra glicemia a 280 mg/100 ml.
In realtà ciò non avviene perché molto prima di giungere a quel punto il pancreas avrà secreto un’elevata quantità di insulina, atta a mantenere controllata la glicemia. Ma quella “pompata” di insulina, sconosciuta in quella quantità al nostro pancreas preistorico, provocherà diversi danni: indirizzerà il surplus zuccherino verso la costruzione di grassi, blinderà le cellule adipose impedendo loro di mobilizzare il loro contenuto, genererà uno stato infiammatorio con la mediazione della visfatina ed esaurirà piano piano il pancreas fino a generare diabete.
Se alla tazzina di caffè sostituiamo un bicchierone di bibita gassata zuccherata i sei grammi della bustina di zucchero si trasformeranno in 15-20 grammi, con effetti devastanti sul nostro equilibrio glicemico, sul nostro appetito, sul nostro ingrassamento. Effetti simili si hanno con 100 grammi di brioche o biscotti (35 g di zucchero e altrettanti di farina bianca raffinata) o con un piatto di pasta bianca (90 grammi di amido che entreranno nel sangue sotto forma di glucosio in una mezz’ora circa). Tutto questo non avviene se assumiamo, per esempio, un pari peso di frutta fresca o di olio d’oliva. Qualcuno pensa ancora che siano le calorie a farci ingrassare?
Solo un’adeguata comprensione di questi meccanismi può permetterci di mantenere con poca fatica un peso perfetto, o permetterci di dimagrire in modo stabile e duraturo se in sovrappeso.
È ora di incominciare a cambiare rotta e a seguire percorsi di salute sensati che superino l’ingenuità del pensiero “calorico” e riportino su basi scientifiche più solide la scienza dell’alimentazione.
Fonte: L’altra medicina