Ecco come il cervello segnala ai neuroni quando iniziare un movimento

Articolo del 31 Marzo 2022

Ogni volta che prendete una tazza di caffè, prende forma un mistero neuroscientifico. Pochi istanti prima di estendere volontariamente il braccio, migliaia di neuroni nelle regioni motorie del vostro cervello erompono in un modello di attività elettrica che viaggia verso il midollo spinale e poi verso i muscoli che permettono la presa. Ma appena prima di questa attività massicciamente sincronizzata, le regioni motorie del cervello sono relativamente tranquille. Per i movimenti auto-diretti, come prendere il caffè, deve ancora essere trovato il segnale “vai” che dice ai neuroni quando esattamente agire – ora e non un momento appena prima o dopo.

In un recente articolo su “eLife”, un gruppo di neuroscienziati diretto da John Assad alla Harvard Medical School rivela finalmente un pezzo chiave del segnale. Si tratta della sostanza chimica cerebrale nota come dopamina, il cui lento aumento in una regione situata in profondità sotto la corteccia ha preannunciato da vicino il momento in cui i topi avrebbero iniziato un movimento, pochi secondi dopo.

La dopamina è comunemente nota come uno dei neurotrasmettitori del cervello, i messaggeri chimici ad azione rapida che vengono trasportati tra i neuroni. Ma nel nuovo lavoro, la dopamina agisce come un neuromodulatore. È un termine per i messaggeri chimici che alterano leggermente i neuroni per causare effetti più duraturi, tra cui rendere un neurone più o meno propenso a comunicare elettricamente con altri neuroni. Questo meccanismo di sintonizzazione neuromodulatoria è perfetto per aiutare a coordinare l’attività di grandi popolazioni di neuroni, come la dopamina sta probabilmente facendo per aiutare il sistema motorio a decidere esattamente quando attivare un movimento.

Il nuovo articolo illustra uno degli ultimi risultati volti a espandere la nostra conoscenza dei ruoli cruciali e diversificati che i neuromodulatori svolgono nel cervello. Grazie ai recenti progressi nella tecnologia, i neuroscienziati possono ora vedere i neuromodulatori al lavoro in reti che attraversano l’intero cervello. Le nuove scoperte stanno ribaltando alcune opinioni di lunga data su questi modulatori alla deriva nel cervello, e stanno rivelando il modo esatto in cui queste molecole permettono al cervello di cambiare flessibilmente il suo stato interno in mezzo ad ambienti sempre mutevoli.

Modulazione del movimento

 

Per identificare ciò che contribuisce alla decisione improvvisa di quando muoversi, Assad e i suoi colleghi hanno addestrato i topi a riconoscere che un movimento di leccata avrebbe portato loro una ricompensa di succo, ma solo leccando tra 3,3 e 7 secondi dopo un segnale costituito da un suono accoppiato a un lampo di luce. I topi avevano quindi una finestra di tempo flessibile in cui potevano decidere di muoversi in qualsiasi istante. La tempistica del loro movimento di conseguenza variava ampiamente da una prova all’altra.

Ma i ricercatori hanno scoperto che ogni volta che si verificava il movimento, esso arrivava quasi immediatamente dopo che il livello crescente di dopamina nello spazio pieno di fluido intorno ai neuroni sembrava raggiungere una certa soglia. Quando la dopamina aumentava molto rapidamente, il movimento avveniva all’inizio del periodo di risposta; quando la dopamina cresceva lentamente, il movimento avveniva più tardi.

L’influenza istante per istante della dopamina “mi ha spiazzato”, ha detto Assad. “E continuo a trovarlo sorprendente.”

Tuttavia, il movimento non avveniva ogni volta che il livello di dopamina superava la soglia critica: un’incongruenza che corrisponde a ciò che ci si potrebbe aspettare da un neuromodulatore, puntualizza Allison Hamilos, specializzanda ad Harvard e prima autrice dell’articolo. Le sostanze chimiche neuromodulatrici producono cambiamenti che rendono più o meno probabile l’attivazione dei neuroni, ma non c’è ogni volta una corrispondenza uno-a-uno. La dopamina era una componente importante del segnale che diceva ai topi esattamente quando muoversi in questo caso, ma altri neuromodulatori e altra attività neurale avevano un ruolo nel segnale “vai” per il movimento e per queste servono ulteriori indagini.

Mark Howe, neuroscienziato all’Università di Boston, ha accolto l’articolo come “un contributo importante” e ha aggiunto: “L’idea che ci sia un lento cambiamento nel segnale della dopamina che influenza il momento in cui muoversi è nuova. Non me lo sarei aspettato.”

Il lavoro precedente di Howe e altri negli ultimi dieci anni ha dimostrato che i livelli di dopamina aumentano rapidamente decine o centinaia di millisecondi prima di un’azione. Così i neuroscienziati sapevano che la dopamina era coinvolta nella segnalazione, dovesse essere iniziato, o meno, un movimento. Il nuovo articolo mostra che i livelli di dopamina evolvono anche lentamente, nel giro di molti secondi, influenzando in modo diretto non solo la decisione se muoversi, ma anche quando esattamente farlo. Questo potrebbe aiutare a spiegare perché i pazienti con il morbo di Parkinson – un disturbo del movimento in cui i livelli di dopamina sono ridotti – hanno difficoltà a iniziare i movimenti con il giusto tempismo: i loro livelli di dopamina che evolvono lentamente di rado raggiungono la soglia critica.

Il ruolo della dopamina come neuromodulatore del movimento è una scoperta relativamente nuova. I neuroscienziati hanno studiato a lungo il ruolo che la dopamina ha nel segnalare al cervello che potrebbe essere imminente una ricompensa. Secondo il gruppo di Assad, è possibile che gli aumenti di dopamina a lenta evoluzione che hanno osservato potrebbero essere gli stessi segnali di aumento che il cervello usa per determinare se è in arrivo una ricompensa. Il cervello potrebbe essersi evoluto per sfruttare il segnale di ricompensa per decidere esattamente quando muoversi, suggeriscono gli scienziati.

Per quanto riguarda il motivo per cui un neuromodulatore come la dopamina sarebbe coinvolto nella decisione di quando muoversi, è possibile che i segnali neuromodulatori che variano lentamente permettano al cervello di adattarsi al suo ambiente. Una tale flessibilità non sarebbe consentita da un segnale che portasse sempre e contestualmente al movimento. “L’animale è sempre incerto, in una certa misura, su quale sia il vero stato del mondo”, osserva Hamilos. “Non si vogliono fare le cose ogni volta allo stesso modo: potrebbe essere svantaggioso.”

Modellare lentamente il comportamento

Anche se alcune delle funzioni dei neuromodulatori sono note da molti decenni, i neuroscienziati sono ancora all’inizio nel comprendere quanto possono fare e come lo fanno. C’è un ampio consenso sul fatto che in determinate condizioni tutti i neurotrasmettitori, come la dopamina, possano agire come neuromodulatori. Il ruolo che una molecola svolge in determinate circostanze tende a essere definito dalla sua funzione e attività. In generale, i neurotrasmettitori sono rilasciati da un neurone nello spazio sinaptico che lo collega a un altro neurone; nel giro di millisecondi, causano l’apertura dei canali ionici [proteine trans-membrana che consentono il passaggio di determinati ioni, NdR] e permettono a ioni e altre molecole cariche di riversarsi nel neurone, cambiandone la tensione interna. Una volta che la tensione supera un valore di soglia, il neurone invia un segnale elettrico ad altri neuroni.

Al contrario, i neuromodulatori sono spesso rilasciati in massa in siti presenti in tutta la corteccia per diffondersi attraverso il liquido cerebrale e raggiungere molti più neuroni. Legandosi ai recettori metabotropi [un altro tipo di proteine trans-membrana, NdR], agiscono in secondi e minuti per rendere più o meno probabile che il neurone rilasci un segnale elettrico. I neuromodulatori possono anche alterare la forza delle connessioni tra i neuroni, alzare il “volume” di alcuni neuroni rispetto ad altri, e anche influenzare quali geni si accendono o si spengono. Questi cambiamenti avvengono nei singoli neuroni, ma quando un’intera rete è coperta da molecole di neuromodulatori che arrivano sui recettori di migliaia o milioni di neuroni, le molecole possono influenzare ogni funzione neurale, dai cicli sonno-veglia all’attenzione fino all’apprendimento.

 

I neurotrasmettitori in genere trasmettono segnali fra le sinapsi tra neuroni. Come neuromodulatori, però, le stesse molecole, si diffondono ad ampio raggio in tutto il liquido cerebrospinale

Diffondendosi attraverso il cervello, i neuromodulatori “permettono di governare l’eccitabilità di una grande regione del cervello più o meno allo stesso modo o allo stesso tempo”, dice Eve Marder, neuroscienziata alla Brandeis University, ampiamente apprezzata per i suoi studi pionieristici sui neuromodulatori alla fine degli anni ottanta. “Stai creando un’immersione localizzata del cervello o un’immersione del cervello più estesa che sta cambiando lo stato di molte reti contemporaneamente.”

I potenti effetti dei neuromodulatori implicano che livelli anormali di queste sostanze chimiche possono portare a numerose malattie umane e disturbi dell’umore. Ma se restano entro i loro livelli ottimali, i neuromodulatori sono come burattinai segreti che tirano i fili del cervello, modellando all’infinito i circuiti e spostando i modelli di attività verso ciò che può essere più adattivo per l’organismo, momento per momento.

“Il sistema neuromodulatorio [è] il più brillante stratagemma che si possa immaginare”, nota Mac Shine, neurobiologo all’Università di Sydney. “Perché quello che stai facendo è inviare un segnale molto, molto diffuso… i cui effetti sono però precisi.”

Stati cerebrali mutevoli
Negli ultimi anni, un’esplosione di progressi tecnologici ha aperto la strada ai neuroscienziati per andare oltre gli studi sui neuromodulatori in piccoli circuiti, e studiare tutto il cervello in tempo reale. Ciò è stato reso possibile da una nuova generazione di sensori che modificano i recettori neuronali metabotropi, facendoli attivare quando un neuromodulatore specifico atterra su di essi.

Il laboratorio di Yulong Li all’Università di Pechino ha sviluppato molti di questi sensori, iniziando con il primo sensore per il neuromodulatore acetilcolina nel 2018. Il lavoro del gruppo sta nello “sfruttare il design della natura” e approfittare del fatto che questi recettori si sono già evoluti per rilevare abilmente queste molecole, spiega Li.

Jessica Cardin, neuroscienziata alla Yale University, chiama i recenti studi che utilizzano questi sensori “la punta dell’iceberg, che emergerà con l’enorme ondata di ricercatrici e ricercatori che usano tutti questi strumenti.”

In un articolo pubblicato nel 2020 sul server di preprint bioarxiv.org, Cardin e i suoi colleghi sono diventati i primi a usare il sensore di Li per misurare nei topi l’acetilcolina in tutta la corteccia. Come neuromodulatore, l’acetilcolina regola l’attenzione e modifica gli stati cerebrali legati all’eccitazione. Si è ampiamente creduto che l’acetilcolina aumentasse sempre la vigilanza rendendo i neuroni più indipendenti dall’attività nei loro circuiti. Il gruppo di Cardin ha scoperto che questo è vero nei piccoli circuiti con solo centinaia o migliaia di neuroni. Ma nelle reti con miliardi di neuroni si verifica il contrario: livelli più elevati di acetilcolina portano a una maggiore sincronizzazione dei modelli di attività. Ma la quantità di sincronizzazione dipende anche dalla regione del cervello e dal livello di eccitazione, dipingendo un quadro in cui l’acetilcolina non ha effetti uniformi ovunque.

Un altro studio pubblicato su “Current Biology” lo scorso novembre ha sconvolto in modo analogo nozioni di lungo corso sul neuromodulatore noradrenalina. La noradrenalina fa parte di un sistema di monitoraggio che ci avverte di situazioni pericolose improvvise. Ma fin dagli anni settanta, si pensava che la noradrenalina non fosse coinvolta in questo sistema durante alcune fasi del sonno. Nel nuovo studio, Anita Lüthi dell’Università di Losanna, in Svizzera, e i suoi colleghi hanno usato il nuovo sensore di Li per la noradrenalina e altre tecniche per dimostrare per la prima volta che la noradrenalina non si “spegne” durante tutte le fasi del sonno, e ha un ruolo nel risvegliare l’animale ove occorra.

“Ci ha sorpreso”, ricorda Lüthi. “[Il nostro risultato] porta il sonno in un diverso regno di stati. Non è il semplice spegnimento di ciò che accade nella veglia.”

Modulare i neuromodulatori

Anche se i nuovi studi effettuati nei laboratori di Assad, Cardin e Lüthi hanno esaminato solo un neuromodulatore alla volta, gli scienziati hanno sottolineato che i neuromodulatori lavorano sempre in tandem. Molti laboratori stanno ora puntando a studiare più neuromodulatori contemporaneamente così da avere un quadro più completo della loro influenza sul cervello.

I ricercatori stanno anche esaminando le prove che alcuni neuromodulatori si modulano a vicenda. Per esempio, gli endocannabinoidi, i neuromodulatori che si legano agli stessi recettori del componente attivo della marijuana, sembrano aiutare a mantenere la quantità di neuromodulatori rilasciati dai singoli neuroni entro un intervallo ottimale.

Ecco perché gli endocannabinoidi sono “cruciali per la nostra sopravvivenza”, dice Joseph Cheer, neuroscienziato della University of Maryland School of Medicine che ha studiato il loro impatto sulla dopamina per quasi 20 anni. “Abbiamo queste piccole molecole che mettono a punto la maggior parte delle sinapsi nel nostro cervello.”

Per Marder, studiare i neuromodulatori in isolamento è “come cercare le chiavi sotto la lampadina solo perché è lì che c’è la luce”, commenta. “Niente della modulazione è mai lineare o semplice.”

 

Fonte: Le Scienze

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