La NASA ha varato un progetto per identificare tutti i microrganismi – batteri, virus e funghi – che vivono all’interno della Stazione spaziale internazionale. La mappatura di questo microbioma, insieme all’esame degli effetti delle radiazioni cosmiche su di esso, è importante per evitare che durante i futuri lunghi viaggi verso Marte possano svilupparsi focolai pericolosi a bordo delle navicelle spaziali.

Gli astronauti non vanno mai nello spazio da soli. Ogni individuo che lascia il pianeta è accompagnato da 100.000 miliardi di batteri, virus e altri microrganismi, ciascuno dei quali potrebbe rappresentare un rischio per la salute. Tuttavia siamo ancora quasi del tutto all’oscuro su come reagiscono alla microgravità queste comunità di microscopici clandestini. Non sappiamo neppure esattamente quale sia la lista completa delle specie che vivono nello spazio a bordo della Stazione spaziale internazionale (ISS).

Ora però sono stati avviati nuovi studi per cambiare la situazione. Il mese scorso, gli astronauti a bordo dell’ISS hanno raccolto campioni all’interno della stazione per disegnare una mappa tridimensionale senza precedenti del suo microbioma. Questo impegno per censire dei microrganismi nello spazio è il primo passo verso la comprensione, la prevenzione e il contenimento di possibili focolai pericolosi a bordo dell’ISS, durante viaggi di lunga durata per Marte o persino in ospedale al rientro sulla Terra.

Noi esseri umani straripiamo costantemente di microrganismi. Dai batteri che rivestono le pareti dell’intestino agli acari che vivono alla base delle nostre ciglia, così piccoli da essere praticamente invisibili, si stima che su di noi e dentro di noi ci siano almeno altrettanti microrganismi che cellule. “Possiamo pensare alle persone come a ecosistemi che camminano”, spiega Pieter Dorrestein, biologo chimico all’Università della California a San Diego.

Gran parte di questi minuscoli esseri viventi è essenziale e ha un impatto di portata così ampia sulla nostra salute (con effetti sull’immunità, sul cuore e forse perfino sulla salute mentale) che spesso gli scienziati parlano del microbioma come di un “organo invisibile”. In effetti le moltitudini di microrganismi che vivono in noi sono così numerose da avere una massa totale pari circa al peso del nostro cervello.

Non sorprenderà, quindi, che capire come si comporta il microbioma durante i viaggi spaziali sia fondamentale se vogliamo inviare astronauti in missioni di lunga durata verso Marte e anche oltre.

La scienza, peraltro, non si preoccupa solo del microbioma umano, ma anche di quello del mezzo spaziale.

Prendiamo il caso della stazione spaziale russa Mir. Nel 1998, circa tre anni prima del rientro programmato che l’avrebbe fatta precipitare nell’oceano Pacifico, alcuni scienziati scoprirono varie decine di specie di batteri, funghi e acari della polvere nascosti dietro un pannello di servizio. “Non avrei mai immaginato che un oggetto inanimato, una macchina dal funzionamento perfetto come la stazione, avesse un microbioma simile a un organismo vivente, come un essere umano”, afferma Serena M. Auñón-Chancellor, astronauta della NASA e medico.

Eppure, contrariamente all’idea dello spazio come ambiente sterile e inerte, qualsiasi navicella spaziale contiene inevitabilmente un assortimento di microrganismi da far accapponare la pelle di qualunque astronauta. Il microbioma di un veicolo spaziale potrebbe rivelarsi dannoso per la salute dei suoi occupanti. “Immaginate di essere su un volo di lunga durata e all’improvviso vi trovate, che so, un batterio ‘mangia carne’ e non riuscite a eliminarlo”, dice Dorrestein. “È questo il tipo di conseguenze che potrebbero materializzarsi.”

Non è un’idea folle. Nel 2006 un gruppo di ricerca inviò nello spazio una coltura batterica di salmonella per un volo di 11 giorni a bordo dello shuttle Atlantis, e in seguito scoprì che, dopo il rientro sulla Terra, quei batteri riuscivano più facilmente a causare la morte dei topi. I batteri che sono riusciti a sfuggire ai saldi vincoli della Terra possono anche diventare più resistenti agli antibiotici: un disastro annunciato, dato che i viaggi spaziali di lunga durata tendono a indebolire il sistema immunitario degli astronauti.

Il nuovo progetto lanciato dal Jet Propulsion Laboratory della NASA e dall’Università della California a San Diego potrebbe contribuire a ridurre la minaccia microbica. A febbraio, l’astronauta Kate Rubins ha prelevato campioni in 1000 punti diversi dell’ISS. Si tratta di un numero circa 100 volte più grande rispetto a quello dei campioni usati normalmente negli studi per tracciare i microrganismi, che di solito si concentrano sulle aree più sospette di un ambiente abitato, come le cucine, i bagni e le zone dove si pratica sport. I campioni saranno conservati in una cella frigorifera e poi, fra qualche mese, saranno riportati sulla superficie terrestre, dove un gruppo di ricerca ne analizzerà le firme genetiche e identificherà tutti i vari microrganismi presenti allo scopo di costruire una mappa tridimensionale di tutto il microbioma dell’ISS.

Inoltre ogni tampone usato per prelevare i campioni conterrà anche tracce di molecole provenienti da alimenti, oli, pelle e altre fonti. Questa prospettiva è davvero entusiasmante per Dorrestein, che collabora al progetto. Attualmente si sa molto poco del tipo di molecole presenti sull’ISS che potrebbero sostenere la crescita delle varie comunità microbiche. La nuova mappa aiuterà la scienza a collegare particolari molecole o sostanze nutritive a specifici microrganismi.

Quando si conosceranno questi collegamenti, gli scienziati potranno compilare linee guida per promuovere la crescita di microrganismi benefici e limitare il proliferare di quelli pericolosi, sfruttando unicamente la gestione delle sostanze nutritive. Potrebbe trattarsi di soluzioni semplicissime, per esempio l’uso di specifici materiali di costruzione per i veicoli spaziali destinati a raggiungere Marte. Tutto ciò suggerisce che il problema di una “astronave ammalata” si potrebbe risolvere almeno parzialmente ancora prima del lancio.

Invece Kasthuri Venkateswaran, microbiologo del Jet Propulsion Laboratory e responsabile scientifico del progetto, è entusiasta soprattutto all’idea delle misure protettive che si potranno mettere in atto durante il viaggio. In questo progetto i campioni saranno inviati sulla Terra, ma il microbiologo sottolinea che per le missioni future sarà necessario eliminare questo passaggio intermedio. “Se andiamo fino a un altro pianeta – spiega – non c’è un corriere che riporta indietro i campioni.”

Anche se è già possibile effettuare analisi genomiche a bordo dell’ISS, si tratta di un processo piuttosto lento, e di fronte a un focolaio pericoloso ogni momento è prezioso (pensiamo solo a quanto tempo ci vuole spesso per avere i risultati di un tampone molecolare per COVID-19). “Dobbiamo essere sicuri di riuscire a stare al passo, perché di questi tempi sappiamo tutti benissimo fino a che punto un minuscolo microbo può sconvolgere il nostro mondo”, afferma David Klaus, microbiologo spaziale dell’Università del Colorado a Boulder.

Per combattere su questo fronte, i tamponi usati da Rubin per prelevare i campioni a bordo dell’ISS hanno una doppia punta: una punta raccoglie i microrganismi per un semplice prelievo, mentre l’altra dovrebbe catturarne i metaboliti, cioè i sottoprodotti chimici naturali dei microrganismi. Dopo aver creato una base di dati che colleghi specifici microrganismi a specifici metaboliti, Venkateswaran e i suoi colleghi potranno costruire minuscoli biosensori che cerchino soltanto quei metaboliti. Possiamo immaginare un dispositivo portatile in grado di diagnosticare la presenza di batteri o funghi nel veicolo spaziale e di avvertire immediatamente gli astronauti all’insorgere di un focolaio, un po’ come avviene con un rilevatore di monossido di carbonio.

L’allarme lanciato da un sistema simile (che Venkateswaran sospetta non diventerà realtà prima di 5-10 anni) farebbe scattare provvedimenti immediati: gli astronauti dovrebbero intensificare i protocolli di igiene per prevenire lo svilupparsi di un focolaio a bordo. “Così si arriverà a una migliore manutenzione degli habitat di domani”, afferma Venkateswaran.

Gli astronauti a bordo dell’ISS si impegnano già molto per tenere sotto controllo le comunità microbiche. Ogni settimana puliscono le prese d’aria con un aspiratore e tutte le superfici con salviette disinfettanti. Auñón-Chancellor stima che, da quando è in orbita, ciascuno dei sei astronauti a bordo ha passato circa tre ore a settimana a pulire. Significa 18 ore a settimana per un volume abitabile totale di appena 388 metri cubi (circa la metà della cabina passeggeri di un Boeing 747), un tempo che può sembrare eccessivo. Ma tutta quella igiene è necessaria, se si considerano le particolari circostanze  dell’ISS. “Lassù – spiega Auñón-Chancellor – il cibo non cade solo per terra. Finisce sul soffitto. Si attacca alle pareti. C’è cibo dappertutto. Quindi la pulizia è in 3D.”

Questa igiene coscienziosa porta alcuni scienziati a ritenere poco preoccupante l’eventualità di un focolaio che si sviluppi durante un viaggio per Marte. “Non ritengo che l’effetto dei batteri sia un grosso ostacolo per i voli spaziali di lunga durata, perché le prove indicano altrimenti”, afferma Klaus. “Sull’ISS vivono persone in continuazione da più di vent’anni, a rotazione, e non si è verificato alcun focolaio”.

Auñón-Chancellor sottolinea che trovare batteri pericolosi non è, di per sé, motivo d’allarme. La cosa diventa preoccupante solo se quei microrganismi fanno ammalare gli astronauti. “La considero più un’identificazione, un avviso”, spiega. “Semplicemente, osserviamo e tracciamo una mappa e attendiamo di vedere come si comportano quei batteri in quell’ambiente sotto stress.”

Venkateswaran, però, non si preoccupa solo dei pericoli per gli astronauti, ma anche del rischio di contaminazione microbica negli eventuali altri pianeti che visiteranno. “Per il pianeta gli astronauti in pratica sono un patogeno”, dice Auñón-Chancellor. “Sono un nuovo microbioma che all’improvviso mette piede su Marte. Persino la tuta spaziale che indosseranno avrà il microbioma di quella missione sul suo materiale esterno”. Se la scienza riuscisse a definire meglio la mappa e la composizione del microbioma su quella tuta spaziale, sarebbe anche possibile pulirla meglio. Venkateswaran spera che questa ricerca aiuti anche la scienza a progettare tute migliori, con giunture che impediscano il passaggio anche ai microrganismi più piccoli.

Le applicazioni non finiscono qui. Per Liz Warren, direttrice senior di programma per lo U.S. National Laboratory dell’ISS, l’aspetto più allettante di questa ricerca ha poco a che fare con lo spazio. Qualsiasi ambiente parzialmente chiuso (una casa, un aereo, un ospedale) ha il suo microbioma, perciò scoprire come impedire ad alcuni microrganismi di prosperare nello spazio (o come fermarli quando ci riescono) offre informazioni utili per ambienti simili sulla Terra.

Prendiamo, per esempio, un altro progetto in corso sull’ISS che analizza l’efficacia dei rivestimenti antimicrobici prodotti da Boeing. L’idea è che se quei rivestimenti funzionano nello spazio, dove i microrganismi possono diventare molto più pericolosi, allora funzioneranno anche sulla Terra. In sostanza, l’ISS è già di per sé un incredibile laboratorio. “È una cosa che non si può fare sulla Terra, dove non si può escludere la forza di gravità”, afferma Klaus. “Avere a disposizione la microgravità è un po’ come avere di nuovo per la prima volta un microscopio, ma in modo diverso. Si vedono comportamenti che altrimenti non si potrebbero osservare.”

 

FonteLe Scienze

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