Ha un impatto sul riscaldamento climatico molto maggiore di quello dell’anidride carbonica, e ora le sue concentrazioni in atmosfera hanno raggiunto valori record. La sua origine è differenziata, come mostrano rilevazioni da satellite, e una parte non trascurabile è imputabile a una manutenzione disattenta dei gasdotti.

La concentrazione di metano (CH4) in atmosfera non è mai stata così elevata, almeno da quando si effettuano le misurazioni sistematiche, ossia dal 1983. Nel 2021 infatti la concentrazione ha superato le 1900 parti per miliardo (o ppb, da parts per billion), quasi il triplo dei livelli preindustriali. Ad affermarlo sono i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) statunitense, pubblicati lo scorso gennaio. Un record che preoccupa non poco gli scienziati, dato che il potere radiativo di questo gas è 86 volte maggiore di quello della CO2, e che influisce quindi sul cambiamento climatico e sull’aumento delle temperature medie globali.

Tuttavia, poiché il ciclo del metano è relativamente breve rispetto a quello dall’anidride carbonica (circa un decennio, rispetto a circa un secolo), ridurre le emissioni fin da subito potrebbe dare un contribuito decisivo nella mitigazione del riscaldamento. Secondo l’ultimo Global Methane Assessment rilasciato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), nel 2019 le concentrazioni medie globali di metano erano il 260 per cento dei livelli preindustriali: i livelli globali sono aumentati di 12 parti per miliardo all’anno durante la fine degli anni ottanta mentre, dopo un periodo di immobilità, dal 2007 il metano atmosferico è tornato a crescere a causa delle emissioni prodotte dalle zone umide ai tropici e da fonti antropogeniche alle medie latitudini dell’emisfero settentrionale.

A conferma di questa tendenza sono stati recentemente resi noti anche i dati rilevati dal Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS) europeo, che hanno mostrato un aumento nel 2021, raggiungendo il valore massimo globale medio: circa 1876 ppb, con un tasso di crescita medio annuo stimato in 16,3 ± 3,3 ppb all’anno, molto elevato rispetto ai due decenni precedenti. “Le concentrazioni di anidride carbonica e metano continuano ad aumentare di anno in anno e non accennano a rallentare”, ha dichiarato Vincent-Henri Peuch, direttore del CAMS. “Questo è il motivo per cui l’introduzione del nuovo servizio diretto dal CAMS, finalizzato al sostegno del monitoraggio e alla verifica delle stime delle emissioni antropogeniche di CO2 e CH4, sarà uno strumento fondamentale nella valutazione dell’efficacia delle misure di mitigazione delle emissioni.”

I maggiori responsabili delle emissioni, secondo i satelliti

In una recente analisi delle immagini satellitari relative al 2019 e 2020, pubblicata su “Science”, si mostra come siano relativamente pochi i cosiddetti “ultra-emettitori”, di fatto i sei principali paesi produttori di petrolio e gas, con il Turkmenistan in testa, seguito da Russia, Stati Uniti, Iran, Kazakhstan e Algeria. I ricercatori hanno usato le osservazioni della piattaforma satellitare europea TROPOMI (Tropospheric monitoring instrument), per quantificare il rilascio di metano atmosferico da parte dell’industria petrolifera e del gas e hanno calcolato che queste fonti rappresentano fino al 12 per cento delle emissioni globali di metano, stimando fino a 25 tonnellate per ora la quantità di gas immessa in atmosfera durante il periodo preso in considerazione. Queste “perdite” possono essere sì accidentali, ma spesso avvengono nel corso di operazioni di manutenzione: il gas viene semplicemente rilasciato durante la riparazione dei tubi, invece di essere pompato in altre sezioni del gasdotto. Un rilascio intenzionale che ha un costo economico, oltre che ambientale, perché si tratta di cospicue quantità che potrebbero essere vendute.

Mappa dei principali gasdotti e delle fonti di emissioni di metano legate alle operazioni dell’industria del petrolio e del gas

“Per quanto ne sappiamo, questo è il primo studio mondiale a stimare la quantità di metano rilasciata in atmosfera da operazioni di manutenzione e da rilasci accidentali”, ha affermato Thomas Lauvaux, ricercatore del francese CNRS impegnato nel programma Make our planet great again e primo autore dello studio. “Gli ultra-emettitori spiegano in parte la sottovalutazione delle emissioni ufficiali del settore oil and gas segnalate dai paesi, come documentato da studi precedenti. Il monitoraggio atmosferico realizzato con le recenti missioni satellitari offre una prospettiva unica sulle attività petrolifere e del gas e il potenziale per mitigare questi grandi rilasci di metano.” Diversi studi recenti hanno infatti dimostrato che le emissioni del settore petrolifero sono spesso sottovalutate dai metodi di calcolo convenzionali, a causa dell’assenza di un sistema di monitoraggio globale in grado di tracciare le fonti di emissioni. Identificare e successivamente quantificare queste fonti potrebbe avere implicazioni significative per gli inventari delle emissioni dei singoli paesi, nonché per le stime delle emissioni di metano.

I dubbi sulle origini delle emissioni

Ma i ricercatori stanno cercando di fare di più, ovvero capire quali siano le maggiori fonti di emissioni e l’origine di questo trend piuttosto preoccupante. Se da un lato sappiamo che parte delle emissioni proviene dalle attività antropiche – come appunto l’estrazione di combustibili fossili, gli allevamenti e le discariche – qual è il ruolo delle fonti naturali?

In un altro studio disponibile su “Pubmed”, i ricercatori hanno valutato la presenza di diversi isotopi del carbonio, dato che il metano a volte contiene non solo carbonio-12, ma anche carbonio-13. Il metano biogenico – ovvero prodotto da microbi, per esempio “digerendo” la materia organica ricca di carbonio presente in una palude – è relativamente ricco di carbonio-12, mentre il metano proveniente dai combustibili fossili e dagli incendi ha relativamente più carbonio-13. Usando i dati atmosferici sul carbonio-13, il gruppo di ricerca ha stimato che i microbi sono responsabili di circa l’85 per cento dell’aumento delle emissioni dal 2007, mentre l’estrazione di combustibili fossili rappresenterebbe il resto. Se da un lato quindi l’aumento è legato a fonti biogeniche, dall’altro, guardando in particolare alle emissioni prodotte dal 2007 al 2016, si stima che almeno un 62 per cento provenga da fonti antropogeniche, come gli allevamenti, la risicultura e le discariche.

Oggi però abbiamo aggiunto un altro tassello, ovvero sappiamo che la crescita esponenziale delle emissioni del metano è principalmente legata alle emissioni causate dalle zone umide. Effetto che è dovuto proprio all’aumento delle temperature: la crescita del ritmo con cui la biomassa viene decomposta in un meccanismo di feedback (o retroazione) che non fa altro che esacerbare gli effetti dei gas serra in atmosfera.

Che fare, quindi? Un primo importante obiettivo è stato certamente raggiunto alla COP26 di Glasgow lo scorso novembre, con la firma da parte di 105 nazioni, del Global Methane Pledge, che vede l’impegno per la riduzione delle emissioni di metano di almeno il 30 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. Si tratta di un accordo piuttosto significativo perché, se rispettato, permetterebbe di ridurre l’aumento delle temperatura di 0,2 °C entro il 2050. E perché ci farebbe guadagnare tempo per concentrarci sulla riduzione delle emissioni di CO2. Inoltre, secondo Euan Nisbet, professore di scienze della Terra alla Royal Holloway University di Londra, iniziare sarebbe piuttosto semplice: “Chiudiamo le perdite di gas, copriamo le discariche, fermiamo la combustione dei rifiuti dei raccolti e rimuoviamo il metano dalla ventilazione delle miniere di carbone. Tutte queste azioni avranno benefici più ampi di quelli che si avrebbero con la riduzione dell’inquinamento atmosferico”.

 

Fonte: Le Scienze

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