Si sente menzionare sempre più frequentemente la fatidica “antibiotico-resistenza”, ovvero la capacità di determinate popolazioni batteriche patogene di divenire resistenti all’azione di farmaci antibatterici.
Ripercorriamo insieme la storia degli antibiotici: passato e presente; ma soprattutto, parliamo di come il rimedio a questo problema possa giungerci dall’Unione Sovietica dei primi del ‘900: i batteriofagi.
Vecchi e nuovi antibiotici
Le primissime testimonianze sull’impiego di antibiotici per il trattamento di infezioni risale ad almeno tremila anni fa. È attraverso il Papiro di Ebers (circa 9450 EU o 1550 a.C.), infatti, che abbiamo una vera e propria ricetta sulla preparazione di decotti comprendenti pane ammuffito e terreno, tra le altre cose.
Complessivamente, si hanno testimonianze nell’uso di prodotti simili ad antibiotici in Serbia, Cina, Grecia ed Egitto. Basti pensare che, recentemente, attraverso le istruzioni di un preparato Anglo-Sassone, si è riusciti a trattare con successo una popolazione di Staphilococcus aureus resistente alla meticillina.
Giungendo a tempi più recenti, il contributo di Alexander Fleming verso la medicina contemporanea è stato inquantificabile. La penicillina ha spalancato le porte a una nuova generazione di antibiotici, innescando a partire dal 11.928 EU (1928 d.C.) una vera e propria età dell’oro per la microbiologia, con un picco nella prima metà degli anni ’50.
Tuttavia, il primo impiego di antibiotici a uso clinico risale a qualche decennio prima. Fu con lo sviluppo del Salvarsan che si ottenne il primo farmaco per il trattamento dell’agente eziologico della sifilide. Qualche anno dopo giunse il Prontosil, il primo farmaco antibatterico ad ampio spettro della storia.
Da allora, la stragrande maggioranza degli antibiotici oggi in commercio derivano da quelle stesse classi di prodotti antibatterici scoperti più di mezzo secolo fa. Affinché una nuova generazione di antibiotici possa vedere la luce, è necessario scoprire nuove classi di prodotti microbici naturali.
Sono loro, i natural produts, a essere gli autentici pezzi da novanta nella lotta ai batteri patogeni. Ci serve una nuova scintilla come fu la penicillina di Fleming.
Cosa sono gli antibiotici?
Facciamo un passo indietro: perché mai batteri e funghi dovrebbero produrre un composto che agisca contro sé stessi? La risposta è semplice: nel mondo dei microorganismi persiste una spietatissima corsa agli armamenti affinché il proprio rivale non possa impadronirsi di quell’ambita fetta di pizza lasciata sulla scrivania da due settimane.
Ecco che allora ciascun batterio (e la colonia di cloni di cui fa parte) produce sostanze chimiche che vengono immediatamente rilasciate per inibire la proliferazione di organismi rivali. Gli antibiotici naturali coprono una lista di necessità lunghissima: predazione, difesa, dialogo tra cellule e persino comunicazione con gli eucarioti di cui entrano a far parte.
Tra gli antibiotici di natura batterica più famosi troviamo:
- Le tetracicline (clorotetraciclina): inibiscono la sintesi proteica dei batteri bloccando la subunità ribosomiale minore; sono largamente impiegati nel trattamento delle malattie sessualmente trasmissibili in combinazione con gli amminoglicosidici.
- Gli amminoglicosidici (streptomicina): analogamente alle tetracicline, bloccano la sintesi proteica; presentano una elevata tossicità per l’organismo umano, sono spesso impiegati in sinergia con altri antibiotici.
- I carbapenemi: appartengono alla famiglia dei beta-lattamici, ossia tutti quei composti in grado di interferire con la sintesi della parete cellulare portando alla lisi della cellula batterica; possono venire somministrati in combinazione con gli amminoglicosidici.
In un’ottica di sopravvivenza del più forte, ogni volta che assumiamo un antibiotico uccidiamo tutti i batteri a esso sensibili, ma al contempo, permettiamo a quelli più forti (resistenti) di proliferare e dare alla luce una nuova generazione di cloni immuni. È così che si ottiene l’antibiotico-resistenza.
Previsioni per il futuro
L’impiego di antibiotici non si ferma al trattamento di malattie infettive. I farmaci antimicrobici hanno un ruolo chiave in un ampio bacino di operazioni ospedaliere: trattamenti oncologici, trasfusioni di organi, operazioni a cuore aperto.
Purtroppo, una somministrazione indiscriminata e, a volte, ingiustificata di questi straordinari prodotti farmacologici ha comportato un lento, ma progressivo, diffondersi di questa antibiotico-resistenza.
La multi-drug resistance potrebbe mettere in pericolo di vita milioni di persone, letteralmente.
Un report in merito condotto dal governo del Regno Unito ha pronosticato come, senza un intervento immediato, l’antibiotico-resistenza comporterà il decesso di oltre dieci milioni di persone entro il 2050. Se non agiamo adesso, ci ritroveremo dinnanzi a una nuova età oscura per il trattamento di batteri patogeni.
Siamo davvero così spacciati? Forse no, ma per valutare quest’opzione dobbiamo trasferirci nell’Unione Sovietica di inizio ventesimo secolo.
Una terapia che parla russo
È l’ 11.917 EU (1917 d.C.) e Felix d’Herelle, batteriologo canadese e brillante ricercatore presso l’Istituto Pasteur, conia un termine che rivoluzionerà l’approccio clinico ai batteri e non solo: batteriofago. Inizialmente, d’Herelle li considera un agente misterioso inducente una rapida morte batterica, da cui il termine “batteriofago“.
È proprio attraverso l’impiego di fagi (il batteriofago T2) che, nell’ 11.952 EU, i ricercatori statunitensi Alfred D. Hershey e Martha Chase provano inconfutabilmente come sia il DNA a veicolare l’informazione genetica, non le proteine.
L’abile batteriologo canadese trova nell’Unione Sovietica terreno fertile per i suoi studi. Con l’espansione del sistema sanitario e la creazione di una medicina di stampo sociale, la necessità di arginare le malattie infettive diviene una impellente priorità per il neonato stato sovietico.
L’Unione Sovietica osserva con interesse gli studi condotti dall’Istituto Pasteur e questa curiosità la spinge ad aprire importantissimi centri di microbiologia, come l’odierno George Eliava Institute a Tbilisi, in Georgia. Sarà con i ricercatori di questo Centro che d’Herelle si ritroverà a collaborare per molti anni, in particolare con George Eliava, di cui il centro prenderà il nome.
Gli studi di d’Herelle sull’interazione batteriofagi-batteri lo conducono, con estremo successo, al trattamento di dissenteria, peste bubbonica e colera. In solo due decenni, l’Unione Sovietica estende l’impiego della terapia fagica alla dermatologia, urologia, pediatria, chirurgia.
All’alba dell’11940 EU (1940 d.C.), prodotti di natura fagica sono commercializzati in tutta Europa: Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, persino negli Stati Uniti.
I batteriofagi, macchine mortali
Ma cos’è un batteriofago? Oggi sappiamo si tratti di una particolare classe di virus che, a differenza di quelli comuni (come l’agente eziologico dell’influenza o dell’herpes), attaccano esclusivamente batteri, portandoli alla morte.
In breve: giunto a contatto con la superficie batterica, il batteriofago inietta il suo materiale genetico nella cellula batterica.
Il DNA può affrontare due cicli distinti: litico e lisogeno.
- Ciclo litico: dal materiale genetico virale si inizia immediatamente a produrre RNA e proteine virali. Questo comporta un accumulo di nuovi virioni all’interno del batterio sino a che questo non esplode come un palloncino. I virioni ora liberi infetteranno nuove cellule.
- Ciclo lisogeno: il DNA virale si integra con quello batterico e vi permane in uno stato di quiescenza. Si esprimerà in un secondo momento a seguito di stimoli ambientali. A fini terapici sono i fagi a ciclo litico a destare maggior interesse, merito della loro immediatezza.
A differenza di un antibiotico, che è un’arma prodotta da batteri contro altri batteri, i batteriofagi sono geneticamente progettati per sfruttare i batteri come apparati biosintetici per la loro sopravvivenza. Se il batterio evolve, il batteriofago (che di certo non vuole “morire”) evolve con lui.
È una guerra senza fine contro un non-organismo progettato per riprodursi a spese del suo ospite: contro i batteriofagi non c’è farmaco-resistenza che tenga.
Caduta e rinascita della terapia fagica
In un mondo senza antibiotici, la terapia fagica si dimostrava efficace e sicura. Tuttavia, l’arrivo della penicillina spazza via questa terapia e si diffonde a macchia d’olio nel mondo, giungendo a conquistare persino la capitale della terapia fagica. L’Unione Sovietica avvia la produzione di massa di antibiotici nell11.950 EU (1950 d.C.).
Fagi, sulfamidici e antibiotici sono accomunati dal distruggere i batteri: semplicemente la penicillina sembrava farlo meglio. Da allora, la terapia fagica cade nell’oblio e ci resta per mezzo secolo.
Nei primi anni 12.000 EU (2000 d.C.), si assiste a un rinnovato e crescente interesse verso questo tipo di terapia, rivolta principalmente al settore della salute umana, veterinaria e nel controllo del settore agroalimentare. In Paesi come Francia e Belgio, la terapia fagica diviene uno strumento occasionale per trattare pazienti le cui cure convenzionali sembrano non fare effetto.
Negli Stati Uniti, un cittadino infetto da un batterio toti-resistente viene trattato con batteriofagi.
È un tiepido rinascimento per la terapia fagica. Si risveglia la curiosità della comunità scientifica. Questa volta è in Inghilterra che un paziente affetto da fibrosi cistica e gravemente infetto viene curato da un mix di batteriofagi naturali e modificati geneticamente, lo studio viene pubblicato su Nature. Le potenzialità sembrano infinite.
- Si parte isolando l’agente eziologico dell’infezione, si selezionano geneticamente i batteriofagi che meglio si addicono, si procede con la loro estrazione, amplificazione e somministrazione.
- I fagi, una volta giunti a contatto con la popolazione batterica inizieranno a riprodursi a spese dell’agente infettivo.
- Una volta che questo sarà completamente rimosso, sicché i fagi non possono sopravvivere senza un host, verranno degradati dall’organismo del paziente.
Ostacoli e propositi per l’impiego dei batteriofagi
Con il crescente interesse verso questa nuova opzione di cura, iniziano a sorgere i primi dubbi burocratici e tecnici. Nessuno usa più fagi dallo scorso secolo, le normative in merito risultano obsolete e sembrano mal adattarsi alle capacità e necessità della scienza odierna.
Al momento, non vi è alcuna specifica regolazione in merito all’impiego farmacologico dei fagi. Negli Stati Uniti sono equiparati a farmaci, mentre nell’Unione Europea sono considerati genericamente medicinali: “sostanza o associazione di sostanze che possa essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche […]”.
Questa categorizzazione sembra perdurare sino ai giorni nostri, sebbene, a più riprese, figure di risalto della microbiologia e farmacologia abbiano sottolineato l’inadeguatezza di questa categorizzazione. Può sembrare una battaglia sul sesso degli angeli, ma non lo è.
Equiparare i fagi ai farmaci convenzionali significa applicare loro le medesime regole su temi come produzione, test clinici e commercializzazione. Tuttavia, essendo i fagi un prodotto on demand per loro stessa natura, diviene pressoché impossibile definirne una produzione su vasta scala che bene si sposi con le attuali normative industriali.
A causa di ciò, dal 12.017 EU (2017 d.C.), il Belgio ha iniziato a considerare i prodotti fagici come “ingredienti attivi in preparati magistrali” (APIs), ovvero medicinali preparati in base a una prescrizione medica/veterinaria destinata a un particolare paziente. La speranza è che questo gesto possa fungere da esempio anche per i restanti Paesi europei.
Batteriofagi e antibiotici, l’unione fa la forza?
Giunti all’epilogo di questo articolo, possiamo considerare gli antibiotici cattivi e i batteriofagi buoni? Ovviamente no, i batteriofagi non devono sostituire completamente gli antibiotici tradizionali. Numerose evidenze cliniche stabiliscono come il trattamento antibiotico resti prioritario in caso di gravi stadi infettivi che non permettano analisi approfondite sul paziente.
Tuttavia, i batteriofagi trovano la loro applicazione nel trattamento di infezioni croniche in cui la cura antibiotica si è a più riprese rivelata fallimentare o completamente inadeguata, oltre che nel caso di infezioni da batteri antibiotico-resistenti.
I batteriofagi sembrano una strada promettente e complementare al trattamento antibiotico con il grande vantaggio di andare ad alleggerire il peso che grava dall’abuso di questi ultimi. A questa conclusione era giunto d’Herelle oltre un secolo fa, speriamo non manchi molto anche a noi!
Fonte: Missione Scienza