Abbiamo riaperto. Tra paure, perplessità, critiche, l’Italia dallo scorso 26 aprile è più aperta. Uno dei più grandi cambiamenti rispetto ai mesi passati è stata la possibilità di consumare al tavolo in bar e ristoranti, ma all’aperto, scongiurando così meno rischi. Perché è assodato, considerate le modalità di trasmissione del virus, che al chiuso si corrono più rischi di infezioni, e non a caso si è più volte sottolineato l’importanza dei sistemi di ventilazione al chiuso, così come il tempo di permanenza, per esempio. Fuori, concordano gli esperti, i rischi sono molto minori. Quali sono, cosa ne sappiamo al riguardo?
I fattori che contribuisco al rischio
Covid-19 è un’infezione che si trasmette principalmente per via respiratoria, ovvero attraverso minuscole goccioline che trasportano in virus e che possono essere inalate. È il motivo per cui indossiamo le mascherine. Sono diversi i fattori che possono acuire o eliminare la possibilità di inalare (o venire a contatto) con goccioline contaminate, come barriere fisiche (dai plexigas alle mascherine stesse), alle distanze interpersonali, ma anche condizioni strettamente ambientali, come vento/ventilazione degli ambienti, umidità, radiazioni ultraviolette, temperature. Tutti insieme, e unitamente alle abitudini sociali (su cui torneremo) questi fattori sono stati chiamati in causa anche per discutere la stagionalità o meno del coronavirus.
Alcuni indizi, per esempio, suggeriscono che condizioni di bassa umidità – più comuni al chiuso e d’inverno – facilitino le infezioni, favorendo la sopravvivenza delle particelle virali. Al tempo stesso la luce solare può inattivare il coronavirus, secondo alcune evidenze recenti più velocemente di quanto creduto finora, e non solo per l’attività ricollegabile ai raggi Uv-B ma anche a quella dei raggi Uv-A. Il contributo di questi fattori alla possibile stagionalità del virus o comunque alla sua persistenza è stato ritenuto generalmente limitato: a pesare sono soprattutto le interazioni tra i portatori del virus e gli spazi che intercorrono tra le persone in cui il virus può concentrarsi o diffondersi. Ed è intuibile come condizioni che promuovano la vita agli spazi aperti possano ragionevolmente ridurre i rischi. All’aperto possiamo godere di ventilazione naturale, possiamo più facilmente rimanere distanti, spalmare il virus su spazi più ampi e così ridurre il rischio di infezioni.
Il rischio all’aperto
Per tutte queste ragioni ed altre (come una possibile maggiore suscettibilità alle infezioni e alle complicazioni legata agli ambienti interni), è ragionevole sentirsi più al sicuro all’esterno, riassumeva poche settimane fa un team della University of California di San Francisco, sulle pagine del Journal of Infectius Disease, chiedendosi però cosa dicessero i dati in proposito. È così che hanno passato in rassegna la letteratura disponibile sul tema, tanto per il coronavirus che per altri virus respiratori. Complessivamente, anche dai dati (limitati, va detto) sì all’aperto si rischia molto meno che al chiuso (fino a circa 19 volte meno) e meno del 10% dei casi di Sars-Cov-2 sarebbero contagi avvenuti all’esterno. Minore rischio non significa nullo. Anche se anche un altro studio, a firma italiana, ha rimarcato come “la trasmissione airborne [nel testo indicata per particelle più o meno grandi, nda] all’aperto è bassa, quasi trascurabile, se si evitano aree affollate e grandi assembramenti di persone”. E qui ci avviciniamo alla questione dei comportamenti.
Questione di comportamenti
Se dunque il buon senso e i dati suggeriscono che sì all’aperto si rischi meno, a fare la differenza (ancora) sono i comportamenti. La distanza e il tempo di interazione con qualcuno potenzialmente infetto modificano l’esposizione al rischio e quindi la possibilità di infezione, ricordano dai Cdc, col rischio di essere ridondanti dopo un anno di pandemia. Eppure il rischio potrebbe proprio essere sottovalutato quando ci si trova all’aperto, adottando comportamenti che in virtù del fatto di stare fuori potremmo ritenere meno pericolosi e importanti, o non tenendo conto di alcune cose che possono capitare all’aperto che non succedono invece al chiuso. Così per esempio, anche all’aperto è consigliabile ricordarsi le basilari norme igieniche che abbiamo rispolverato a fondo con la pandemia e, laddove le distanze non possano essere garantite, indossare la mascherina.
Perché è vero che stare all’aperto riduce notevolmente la concentrazione delle particelle virali emesse da potenziali infetti, ricordava, tra gli altri, l’esperto di malattie infettive Thomas A. Russo sulle pagine di The Conversation qualche mese fa, il rischio non può considerarsi zero. Il tempo, le modalità di interazione e la vicinanza con le persone, non ché la quantità di contatti con cui si interagisce o che si trovano nel posto in cui ci si muove, possono influenzarlo. Per esempio, citava Russo, interagire con più persone da vicino potrebbe aumentare il rischio di cumulare dosi virali sufficienti a infettarsi e ammalarsi, senza dimenticare il rischio di incappare in un possibile superdiffusore.
Più che allarmare, quanto raccontato serve a ricordare che non ci sono situazioni sicure al 100%, anche se sì, stare all’aperto aiuta. Va da sé, inoltre, che in tutto questo giochi un ruolo importante conoscere la situazione epidemiologica locale, rammentano i Cdc. Quando è diffuso al momento il coronavirus nelle zone che frequentiamo influenza il rischio cui ci esponiamo. Sono nati anche strumenti in grado di stimare la probabilità di incontrare un positivo in una determinata zona, come è stato con Eventi e Covid-19.
Per conoscere la situazione epidemiologica locale – ma qui ci postiamo in ambito di ricerca e salute pubblica, più che di autovalutazioni personali – d’aiuto potrebbero essere anche i monitoraggi eseguiti, per esempio, sull’aria. È stato osservato infatti che è possibile rinvenire tracce di rna virale sul particolato, un indicatore indiretto dell’eventuale presenza di focolai, e non della capacità di infettare o aumentare la diffusione, come raccontavamo.
Fonte: Galileo