La discussione su quanto COVID-19 abbia a che fare con i cambiamenti climatici si sta sviluppando con sempre maggiore intensità, specie dopo che l’OMS mercoledì 11 marzo ha dichiarato la pandemia. Adesso l’attenzione e lo sforzo sono giustamente concentrati sulla crisi da Covid-19, ma speriamo che presto si apra un dibattito pubblico sulle cause e in particolare su quanto la perdita di habitat, guidata in parte dai cambiamenti climatici, ha facilitato la diffusione dei patogeni tra la fauna selvatica e il virus che passa alle persone. Confidiamo che insieme si possa approfondire il ruolo dell’inquinamento atmosferico, principalmente causato dall’uso di combustibili fossili, nel rendere le persone più vulnerabili alla contrazione della malattia.

Questo articolo vuole rimarcare alcuni punti fermi in termini di salute nel contesto planetario, e ragionare su come meglio organizzare la sanità pubblica di fronte alle sfide che ci attendono.

Malattie infettive e ambiente: il caso COVID-19
Sulla base dei risultati di una moltitudine di lavori scientifici e dei rapporti di Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC nessuno può negare che sia sostanzialmente cambiata la composizione dell’atmosfera e sarebbe altrettanto sciocco negare che la qualità dell’aria che respiriamo influisca sulla nostra salute. La contaminazione chimica delle matrici ambientali fondamentali per l’esistenza della vita ha un impatto sulla salute umana, sia sulle malattie non trasmissibili che su quelle trasmissibili. Il carico di malattia dovuta a rischi ambientali è ratificato dall’OMS.

I cambiamenti climatici agiscono direttamente e indirettamente nel determinare un’ampia varietà di malattie, favorendone nuove e agendo come forza moltiplicatrice per molte delle problematiche già esistenti. Ad esempio, sono un fattore determinante per la diffusione di malattie infettive, poiché alterano le condizioni ambientali favorendo la replicazione dei vettori che trasmettono il patogeno, cioè gli insetti.

Secondo il Lancet Countdown rispetto agli anni ’50, nell’ultimo decennio si è registrato un forte incremento globale nella capacità delle zanzare A.Aegypti e A.Albopictus di trasmettere il virus Dengue: le proiezioni, basate sui dati a disposizione, permettono di ritenere ragionevole che questo trend sia in costante aumento, di pari passo con l’aumento delle emissioni di gas serra.

In generale, ci sono due spiegazioni della maggiore diffusione di insetti vettori: il clima che cambia modifica le caratteristiche degli insetti e ha un impatto sul loro cibo e sui loro nemici naturali e sui predatori.
All’aumentare della temperatura, il metabolismo dell’insetto accelera. Poiché bruciano più energia, consumano di più, si sviluppano più velocemente, muoiono di meno, si riproducono più velocemente e depongono più uova. Il risultato finale è un aumento delle popolazioni.

Il Cambiamento Climatico determina un cambio delle precipitazioni atmosferiche, con sempre più frequenti estremi, come inondazioni e siccità. Questi cambiamenti influenzano le interazioni tra parassiti, piante e nemici naturali.
Infine, a seguito del riscaldamento per trovare cibo e sfuggire alla competizione e ai nemici naturali, gli insetti si spostano in nuovi territori ed esplorano nuovi habitat.

Deforestazione, antropizzazione e avvicinamento degli animali all’uomo creano un ambiente propizio allo sviluppo di malattie infettive e la mobilità umana ne aumenta la diffusione, com’è il caso del COVID-19.

Secondo un recente Report del WWF, la distruzione degli habitat naturali provocata dall’uomo, rompe gli equilibri ecologici e crea condizioni favorevoli alla loro diffusione. «Le foreste sono il nostro antivirus. La loro distruzione può quindi esporre l’uomo a nuove forme di contatto con microbi e con specie selvatiche che li ospitano. Nelle foreste incontaminate dell’Africa occidentale, ad esempio, vivono pipistrelli portatori del virus dell’Ebola. Il cambiamento di uso del territorio come le strade di accesso alla foresta, l’espansione di territori di caccia e la raccolta di carne di animali selvatici, hanno portato la popolazione umana a un contatto più stretto con nuovi virus, favorendo l’insorgenza di nuove epidemie».

D’altra parte è stimato che più del 60% delle malattie infettive presenti nella specie umana si sia originata da specie animali selvatiche e domestiche: pipistrelli, topi, maiali, scimmie, gatti.

Un recente articolo comparso su Nature Microbiology sul fenomeno dell’antibiotico resistenza, ne rileva la natura globale richiamando il problema della diffusione degli antibiotici negli animali e nell’ambiente (acqua e suolo), tutt’altro che scollegato dall’attuale pandemia da Covid-19. Tutto questo viene sintetizza to nel concetto di one health.

Nel 2003 è comparsa la SARS, Sindrome respiratoria acuta grave, che dai pipistrelli si è trasferita agli zibetti (piccoli mammiferi) e poi all’uomo. Nel 2009 si è diffusa un’epidemia causata dal virus H1N1, nota come influenza suina, trasmessa dagli uccelli ai suini e poi passata all’uomo. Nel 2012 è comparsa la Mers, Sindrome respiratoria del Medio Oriente, trasmessa dai pipistrelli ai cammelli e, in seguito, all’uomo. Nel 2014 anche il virus responsabile di Ebola, già individuato a metà degli anni ’70 e trasmesso dai pipistrelli della frutta, ha acquisito la capacità di trasferirsi direttamente da uomo a uomo.

Nel dicembre 2019 ha fatto la sua comparsa il nuovo coronavirus cinese (SARS Cov 2). Le ricerche hanno evidenziato che il virus responsabile dell’attuale pandemia, per adattarsi all’uomo, ha modificato due proteine strutturali e una proteina di superficie. Il legame che si instaura tra le proteine di superficie del virus e i recettori presenti sulle cellule umane rappresenta la chiave per aprire la serratura e insediarsi all’interno delle cellule. Il virus responsabile dell’epidemia di Covid-19 è per l’80% simile a quello della SARS, ma è meno letale, anche se più contagioso.

Sono ancora tanti gli interrogativi senza risposta, ad esempio sulle cause, sicuramente molteplici, dell’elevata letalità di Covid-19 in Italia, su come proteggere gli ospedali non solo dai virus ma anche dalle correlate infezioni batteriche antibiotico-resistenti, e dalla presenza di super batteri in grado di aggravare il quadro clinico già complessi di malati da Covid-19. Ricordiamo che l’Italia è in Europa, insieme a Cipro, il Paese che ha più ceppi batterici antibiotico resistenti e la maggiore mortalità correlata. Un recente rapporto dell’OMS mostra come l’AMR sia una minaccia sanitaria globale, con impatti negativi sulla salute umana e animale. Ogni anno, infatti, le infezioni resistenti ai farmaci provocano 700.000 morti e si prevede un incremento fino a 10 milioni nel 2050.

Sul versante ambientale, uno degli aspetti che sempre più emerge è che oltre all’uso massivo dei combustibili fossili, si brucia sempre più legna e derivati, rifiuti urbani, agricoli, industriali. L’impatto documentato è su un numero di malattie che solo qualche decennio addietro era ritenuto impensabile: tumori di varie sedi, malattie cardio e crebro-vascolari, nervose, oltre a quelle respiratorie, che rendono le persone più suscettibili ad ammalarsi e più fragili di fronte a malattie di altra origine, come è il caso del Covid-19.

Di molti legami tra perturbazioni ambientali e salute abbiamo prove convincenti, di altre abbiamo ipotesi solide che vista la posta in gioco dovrebbero essere affrontate con approccio precauzionale.
Covid-19 e le malattie non trasmissibili di origine ambientale richiamano uno sforzo senza precedenti, da una parte per contrastare i cambiamenti climatici e ambientali e dall’altra per attrezzare le nostre società a sfide come quella in corso.

Tutto questo nella prospettiva che occorre confrontarsi con il problema ormai da tutti assodato come quello del legame tra gli effetti di un ambiente degradato, quelli di un’epidemia (quale quella da SARS COV 2) e le diseguaglianze socio-economiche.  In altre parole che le classi sociali più deprivate saranno sempre più al centro dei rischi sopra riferiti.

Quindi, che fare?
In merito al rapporto tra ambiente e salute, una strategia che potrebbe risultare vincente è il coinvolgimento di una rete di Medici di Famiglia (MF) e dei Pediatri di Libera Scelta (PLS) in una strategia integrata di Prevenzione. Certamente ciò richiederà un forte investimento in termini di formazione, non essendo questi medici solitamente prepararti a occuparsi in modo approfondito di salute in relazione all’ambiente: tale competenza oltretutto non è inserita nei loro compiti e non è insegnata nel corso di medicina.

Tra questi operatori non vi è sempre consapevolezza dell’influenza, anche a livello clinico, come nel caso di una malattia infettiva in atto, dell’ambiente sull’insorgenza e sul decorso della patologia. I MF e i PLS, se adeguatamente sensibilizzati, formati e organizzati, possono rappresentare un “anello di congiunzione” tra evidenze scientifiche, problemi globali e azioni locali. A questo proposito, diverse recenti e autorevoli pubblicazioni hanno sottolineato le grandi potenzialità offerte dal coinvolgimento dei Primary Care Providers.

E d’altra parte un loro coinvolgimento consentirebbe non solo di raccogliere informazioni in modo tempestivo e preciso su modificazioni “inattese” dello stato di salute della popolazione e dell’ambiente, ma anche e soprattutto permetterebbe al Servizio Sanitario di trasmettere un immediato senso di protezione ai cittadini che nel 95% dei casi è in rapporto fiduciale con il proprio medico o pediatra.

Nel caso del COVID-19 riteniamo utile chiedersi quanto una migliore interazione tra il sistema ospedaliero e quello di prevenzione territoriale avrebbe potuto incidere positivamente sulla gestione dell’epidemia, addirittura sul riconoscimento dell’inizio dell’epidemia. D’altra parte, anche in questo momento, una collaborazione dei Medici di Famiglia con i Dipartimenti di prevenzione che sono fortemente impegnati nel processo contact-tracingpotrebbe risultare risolutivo.

Il rilancio della sanità pubblica sia sul versante della prevenzione sia della cura sembra oggi più ineludibile di ieri. Il servizio sanitario è l’asse del welfare che dovrà essere rafforzato e ripensato per adeguarlo alle sfide a venire.

 

FonteQuotidianoSanità.it

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