La scoperta, per ora testata solo in vitro, da parte di un gruppo internazionale di ricercatori che dopo aver identificato la classe di enzimi necessari al virus Sars-CoV-2 per uscire dalle cellule infettate e diffondersi a tutti i tessuti dell’organismo ha scoperto che un composto naturale già noto , l’Indolo-3 Carbinolo (I3C), è in grado di frenare l’uscita del virus dalle cellule. Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell Death & Disease, è stato coordinato dalle Università italiane di Tor Vergata e di Torino e del Nevada, Usa.

Si chiama “I3C” un potenziale nuovo trattamento naturale che, almeno nelle sperimentazione in vitro, appare in grado di frenare l’uscita del virus Sars-CoV-2 dalle cellule e che, una volta eseguita la sperimentazione clinica sull’uomo, potrebbe anche essere rapidamente approvato, in quanto già utilizzato per altri trattamenti, una volta dimostrata l’efficacia sui pazienti Covid -19.

La scoperta è stata fatta da un gruppo internazionale di ricercatori che ha identificato la classe di enzimi (E3-ubiquitin ligasi) necessari al virus Sars-CoV-2 per uscire appunto dalle cellule infettate e diffondersi a tutti i tessuti dell’organismo. Queste stesse proteine svolgono un’azione simile anche per altri virus come l’Ebola.

Il team ha dimostrato che l’attività di questi enzimi può essere inibita da un composto naturale già noto e ben tollerato dall’organismo umano, l’Indolo-3 Carbinolo (I3C), una sostanza organica naturale derivante dalla degradazione del glucosinolato glucobrassicina che si trova in quasi tutte le piante crocifere, e quindi, secondo i ricercatori, “potenzialmente utilizzabile, come antivirale in forma singola o in combinazione con altre terapie”. Il composto I3C si è infatti dimostrato capace di bloccare, anche se per il momento solo in vitro, l’uscita e la moltiplicazione del virus dalle cellule infettate.

I risultati della ricerca sono raccolti in uno studio internazionale sul Covid-19, pubblicato sulla rivista Cell Death & Disease (Nature), coordinato dai Professori Giuseppe Novelli (Università di Tor Vergata – Università del Nevada, Usa) e Pier Paolo Pandolfi (Università di Torino – Università del Nevada, Usa), in collaborazione con l’Ospedale Bambino Gesù (Roma), Istituto Spallanzani (Roma), l’Università San Raffaele (Roma) e diverse Istituzioni americane (Harvard, Yale, Rockfeller, NIH, Mount Sinai, Boston Univ.), canadesi (Univ. of Toronto) e francesi (Inserm Parigi, Hôpital Avicenne).

I ricercatori hanno dimostrato che i livelli di questi enzimi sono elevati nei polmoni dei pazienti e in altri tessuti infettati con il virus. Lo studio ha anche identificato alterazioni genetiche rare nei geni codificanti per queste proteine in un sottogruppo di pazienti (circa 1300) con forma grave della malattia selezionati dalle coorti dei Consorzi Internazionali: Covid Human Genetic Effort, French Covid Cohort Study Group, CoV-Contact Cohort, e Healthy Nevada Project. Queste alterazioni aumentano l’attività degli enzimi e favoriscono l’uscita del virus infettante.

Lo studio, cofinanziato dalla Fondazione Roma, contribuisce alla comprensione dei meccanismi molecolari che governano il ciclo vitale di Sars-CoV-2 aprendo la strada alla identificazione delle relazioni ospite-patogeno necessari per l’identificazione e lo sviluppo di nuovi farmaci in grado di interferire con la replicazione virale, bloccandone la trasmissione.

“Un vaccino – afferma Novelli – è solo una misura profilattica. Dobbiamo testare il farmaco in studi clinici con pazienti Covid-19 per valutare rigorosamente se può prevenire la manifestazione di sintomi gravi e potenzialmente fatali. Avere opzioni per il trattamento, in particolare per i pazienti che non possono essere vaccinati, è di fondamentale importanza per salvare sempre più vite umane e contribuire ad una migliore condizione e gestione della salute pubblica”.

“Dobbiamo pensare a lungo termine – afferma Pandolfi – i vaccini, pur essendo molto efficaci, potrebbero non esserlo più in futuro, perché il virus muta, e quindi è necessario disporre di più armi per combatterlo. La scoperta su I3C è importante, e ora dobbiamo avviare studi clinici per dimostrare la sua potenziale efficacia. Sarà importante valutare se I3C possa anche ridurre le gravissime complicazioni cliniche che molti pazienti sperimentano dopo aver superato la fase acuta dell’infezione. Questo rappresenterà un grave problema negli anni a venire, che dovremo gestire. Dobbiamo anche andare avanti nella ricerca farmacologica, per identificare ulteriori composti e terapie efficaci adesso per Covid-19, e per altri virus che saremo chiamati ad affrontare in futuro”.

 

FonteQuotidianoSanità.it

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS